Mercoledì scorso, la plenaria del Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione che chiede alla Vigilanza unica della Banca centrale europea l’inserimento negli stress test dei cosiddetti attivi di Livello 3 delle banche, cioè quelli che vengono prezzati secondo modelli interni e non a mezzo di prezzi di mercato, in quanto la complessità di questi investimenti li rende pesantemente illiquidi e soggetti ad arbitrio valutativo. Non sappiamo se e come il Single Supervisory Mechanism darà seguito alla richiesta del Parlamento europeo, ma il momento è propizio per qualche considerazione in merito.
La politica e la stampa italiane stanno da tempo martellando sul presunto “favore” che “le banche del Nord” (sic) starebbero ottenendo dal regolatore europeo, che insisterebbe a non sottoporre a stress test questi attivi illiquidi, che la nostra pubblicistica insiste a definire “tossici” ma che tossici non sono. Le motivazioni italiane, strepitate dall’Associazione bancaria del nostro paese, sono che i titoli illiquidi andrebbero inclusi negli stress test e che non farlo metterebbe le nostre banche a “svantaggio competitivo” rispetto a quelle di altri paesi, soprattutto francesi e tedesche, ma anche britanniche e, fuori dalla Ue, svizzere.
Prendiamo il caso più eclatante, quello che fa schiumare i nostri banchieri e patrioti: quello di Deutsche Bank. Che, a fine settembre scorso, aveva attivi Level 3 per 28,8 miliardi di euro. Dato che, oggi, la capitalizzazione della banca tedesca è di poco più di 25 miliardi, l’argomento “italiano” è che, se questi titoli illiquidi valessero meno di quanto indicato a bilancio, e se la perdita fosse effettivamente presa, i tedeschi dovrebbero precipitarsi a fare un mega aumento di capitale. Premesso che tale aumento potrebbe pure avvenire senza far crollare il mondo, quello che ai patrioti italiani sfugge è che DB ha anche passivi Level 3, per circa 11 miliardi di euro. Che, almeno in prima approssimazione, riducono l’esposizione problematica. Ma cosa c’è dentro gli attivi di Livello 3? Di tutto, motivo per il quale la sola idea di applicare degli stress test prendendo tali attivi come una categoria omogenea è semplicemente assurda. Tra questi attivi troviamo, ad esempio, gli swap a lunga scadenza su tassi d’interesse ma anche partecipazioni azionarie e debito sovrano strutturato con opzioni più o meno esotiche.
Inoltre, le banche per tali strumenti indicano uno spettro di valutazioni, sotto ipotesi ottimistiche e pessimistiche. Il mercato fa il resto, nel senso che gli investitori tendono ad applicare uno sconto, più o meno ampio, sulla valutazione del vino fatta dall’oste-banchiere. Qui si nota la circolarità del fenomeno ma anche la mano correttiva del mercato, che di solito non è che abbia bisogno di farsi dire dal regolatore quando e quanto è rischiosa una banca. Ovviamente, lo sconto applicato a banche farcite di attivi illiquidi aumenta in fasi di forte avversione al rischio. Se non vi siete ancora persi in questo discorso vagamente tecnico, è giunto il momento di tentare di rispondere alla grande domanda: ma che frega alle banche italiane degli attivi Level 3, visto che ne hanno assai pochi in portafoglio?
E qui, possiamo solo avanzare delle congetture. Quella che ci balza alla mente è che gli italiani, con questa ossessione per gli attivi illiquidi altrui, stiano in realtà cercando di applicare il famoso motto “mal comune, mezzo gaudio”. Sì, ma come? Forse qualcuno, dalle parti dell’Abi, pensa che, se si includessero i Level 3 negli stress test, le banche italiane potrebbero avere una sorta di “deroga” o di trattamento meno duro sullo smaltimento delle sofferenze? Oh bella, e come vi viene in mente, una cosa del genere? Forse dalla vostra cultura del negoziato da vicolo? Sapete invece che accadrebbe? Una cosa molto semplice: che alle “banche del Nord” verrebbero richiesti forti aumenti di capitale. Che causerebbero una stretta creditizia. Che causerebbe una violenta frenata dell’economia europea. Di cui la prima vittima sarebbe l’Italia, ovviamente.
Ora, non è che il rischio non debba essere assoggettato a stress test, per carità. Si proceda pure, dopo aver preso coscienza che abbiamo di fronte un coacervo di attivi ingestibile come entità unica. Ma si prenda anche coscienza che i mercati stanno già penalizzando le banche che hanno in portafoglio grandi quantità di attivi del genere, e già questo è un effetto riequilibrante e che può finire ad imporre azioni sul capitale, in termini di dismissioni e richiesta di denaro fresco. Se però -ribadiamolo- qualche italiano pensa che, dall’inclusione sistematica dei Level 3 negli stress test, noi finiremmo ad essere in qualche modo “risparmiati” da una giostra infernale, ha capito solo quello che la sua cultura del mercanteggiamento levantino gli permette di comprendere. Anche qui, per l’ennesima volta: attenti a quello che desiderate, potrebbe avverarsi. In molti modi. Ad esempio, introducendo la ponderazione per il rischio dei titoli di stato che le banche hanno in pancia. Ahia.
Se vi avanza qualche minuto, andate a leggervi questo eccellente pezzo di Morya Longo sul Sole del 17 febbraio, in cui si dà conto del processo di omogeneizzazione delle regole bancarie in Ue, dopo che i nostri banchieri e politici hanno trascorso anni a latrare sugli svantaggi a loro danno, maestraaa! Salvo poi scoprire che le regole comuni ci stanno facendo comunque male. Leggete:
«Prendiamo, ad esempio, il fatto che ormai è stata uniformata e resa più stringente per tutti la definizione di crediti “past due“, cioè quelli in cui si manifestano ritardi nel pagamento. Questo sarebbe positivo in linea teorica, perché finalmente esiste una regola uguale per tutti in Europa per definire in bilancio questa prima categoria di crediti deteriorati. Peccato però che una decisione giusta come questa vada a penalizzare le banche di un Paese come l’Italia dove il peggior pagatore è lo Stato. Morale: la regolamentazione europea elimina una precedente asimmetria (quando ogni Paese definiva questa categoria di crediti a modo proprio), ma nei fatti finisce per svantaggiare un sistema bancario che vive in un Paese con un cronico ritardo nei pagamenti»
Non vi viene da ridere? Volevamo il level playing field e ora che lo abbiamo avuto ne siamo le prime vittime. Capite che significa essere un paese in bancarotta culturale, sociale e civile prima che economica? O ancora:
«Anche la definizione di Npe (cioè di credito deteriorato) è stata uniformata. Questo è positivo: da tempo l’Italia chiedeva maggiore livellamento europeo nella definizione dei crediti problematici. Peccato, però, che l’Italia sia un Paese dove la giustizia è lenta e dove la banca – a differenza di altri paesi come la Spagna-ha difficoltà a reimpossessarsi degli immobili pignorati senza svalutarli in una sfilata infinita di aste andate deserte. Questo ha l’effetto di deprezzare le garanzie immobiliari e gli stessi crediti in sofferenza più in Italia che in altri Paesi»
Meraviglioso. Eppure è tutto un complotto contro l’Italia ad opera dei “paesi del Nord” e finanche della Spagna, come il direttore del Sole non perde occasione per ribadire nei suoi editoriali. Un vero peccato, avere in casa degli ottimi giornalisti e non leggerli.