Il vincitore (delle primarie) prende tutto

di Vitalba Azzollini

Egregio Titolare,

l’assuefazione a slogan e frasi a effetto declamate da politici in cerca di consenso induce molti a non chiedersi più cosa significhino di preciso. Su questo spazio web, invece, si insiste a voler capire, ostinatamente.

Nei giorni precedenti alla primarie del 30 aprile scorso, colui il quale ne è risultato vincitore aveva affermato, replicando a fantomatiche minacce: “amici: vogliono togliervi anche le primarie. Vogliono togliervi la possibilità di selezionare la classe dirigente”. Eppure, quelle primarie – com’è noto – servivano a scegliere il segretario, non “la classe dirigente”. A quale “classe dirigente” Renzi intendeva riferirsi? Forse a quella del partito, sottintendendo che, in fin dei conti, il 30 aprile si votava per il segretario del “PdR”? Ma, a ben pensarci, il cenno dell’ex presidente del consiglio evoca anche altro: cioè la “classe dirigente” della pubblica amministrazione che, se la Consulta non avesse “bloccato” la relativa riforma, sarebbe oggi ancora più legata a quel potere che il candidato premier aspira a riconquistare in breve tempo.

È stato tutto già scritto, da Luigi Oliveri prima di molti altri. Il piano del precedente governo, sotto l’apparenza patinata dell’ennesima riforma epocale, era quello di rendere la “classe dirigente” della P.A. più pesantemente sottoposta ai “desiderata” della politica in auge, mediante una serie di meccanismi all’uopo predisposti, aggravando la situazione oggi esistente. Come attestato da ricerche empiriche, i.e. “svolte sul campo”, i governanti pro tempore possono già dispiegare i propri tentacoli sui livelli burocratici più alti (e, a cascata, sull’intero apparato), con buona pace del principio di separazione fra politica e amministrazione.

Alcuni esempi valgono a comprovarlo. Gli “uffici di diretta collaborazione” degli organi politici si dimostrano nella pratica lo strumento principale di condizionamento dell’attività della P.A. Si tratta di strutture concepite con “esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione”, aventi la funzione di limitare “le asimmetrie informative” tra quest’ultima e il vertice cui fa capo. Eppure, detti uffici – ai cui componenti è richiesto l’unico “merito” della relazione fiduciaria con chi li ha nominati – sono diventati “crocevia dell’ambiguità dei rapporti tra politica e amministrazione”, sostituendosi spesso alle strutture deputate alla gestione e creando così “un’amministrazione a forte fedeltà politica”.

Come ciò abbia inciso sulla qualità della “classe dirigente”, è facile immaginarlo. E non è tutto. Tra le altre cose, la legge prevede che gli incarichi più elevati nella P.A. cessino decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia all’esecutivo, potendo essere confermati, modificati o rinnovati. In questo modo, a ogni giro di giostra dei governi nostrani, gli esponenti dei politici di turno vengono piazzati nei ruoli cardine delle amministrazioni dello Stato. Ma pure certe riorganizzazioni interne degli uffici, parimenti consentite, possono favorire la rimozione di dirigenti non graditi.

Inoltre, la politica può affidare incarichi dirigenziali a personale esterno al ruolo, entro percentuali prefissate: com’è ovvio, non c’è chi non ne approfitti. Quanto al personale interno, la previsione formale di requisiti professionali e di valutazioni comparative tra i candidati agli incarichi dirigenziali non è tale da evitare scelte sostanzialmente discrezionali: in assenza di motivazioni puntuali, merito e competenza restano solo criteri vuoti da declamare alla bisogna. Così “l’autorità politica ha reso subalterna e fidelizzata la dirigenza pubblica, che, in conseguenza di ciò, diviene ‘porosa’ alle ingerenze del vertice politico nelle decisioni di gestione”.

Il governo del noto rottamatore si è ben guardato dal rottamare il sistema sopra esposto. E nel mentre si adoperava per peggiorarlo ulteriormente con la riforma poi bloccata, come detto, ha proceduto comunque in via di fatto. Una recente ricerca rileva che il precedente esecutivo ha realizzato “una sorta di accerchiamento dell’amministrazione statale”, ai fini della “necessaria controllabilità delle burocrazie ministeriali”. In particolare, ha fatto sì che gli uffici di diretta collaborazione operassero come “amministrazione parallela” rispetto quella apicale di ruolo, spostando ulteriormente “l’equilibrio tra politica e amministrazione, in favore della prima”. Inutile stupirsi, Renzi l’aveva annunciato sin dall’inizio. Nel discorso con cui chiedeva la fiducia al Senato, aveva detto: “Credo però che sia civile un Paese che afferma la contestualità tra l’espressione popolare del Governo del Paese e la struttura dirigente della macchina pubblica”. Stava rivendicando il diritto della politica a intromettersi nella pubblica amministrazione, ma nessuno parve rendersene conto.

Aveva, dunque, ragione quando, nei giorni scorsi, in qualità di potenziale presidente del consiglio prossimo venturo, ha affermato che votando alle primarie si seleziona la “classe dirigente”: basta votare per chi aspira a essere un asso piglia tutto – partito, P.A., liste elettorali – e il gioco è fatto.

A questo punto, caro Titolare, non resta che unirsi alla comprensione espressa nel tweet che riporto: 140 caratteri, a volte, dicono tutto.

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