A pochi giorni dalle elezioni generali, un brivido ha scosso la campagna elettorale del Regno Unito, che molti titolati osservatori avevano già archiviato prevedendo una vittoria a valanga dei Conservatori di Theresa May: i sondaggi indicano l’apparente recupero dei laburisti di Jeremy Corbyn ma, soprattutto, il crescente rischio di un parlamento “appeso”, proprio nella legislatura che definirà la Brexit. Non è detto che andrà così: il sistema elettorale britannico può sconfessare i sondaggi su base nazionale, col suo uninominale maggioritario secco.
La premier May sta però mostrando evidenti limiti di comunicazione e strategia politica, o più propriamente caratteriali. Grave infortunio, ad esempio, su quella che è stata ribattezzata la “tassa sulla demenza”, che di fatto arrivava all’esproprio dell’asse ereditario (al netto di 100 mila sterline) dei cittadini vittime di patologie da lungodegenza quali l’Alzheimer, poi rimossa dal programma. Oltre ad una più generale ondivaghezza che la porta a rimangiarsi parti del programma, ripetendo ossessivamente che “nulla è cambiato”, non appena realizza che l’elettorato digrigna i denti.
Il manifesto elettorale dei Laburisti è vecchio stile, da antica sinistra ante (e anti) blairiana, fatto com’è di nazionalizzazioni massive (reti energetiche, poste, acquedotti), salario minimo pari al reddito di sussistenza, cioè a 10 sterline orarie, pasti gratis ai bimbi delle scuole primarie, rapporto massimo di 20 a 1 tra le remunerazioni minime e massime della pubblica amministrazione e delle imprese che concorrono ad appalti pubblici, spinta alla sindacalizzazione, un massiccio piano di investimenti infrastrutturali finanziati dalla creazione di una banca pubblica e di una rete di banche comunitarie in grado di mobilitare 500 miliardi di sterline. Addirittura il divieto per le banche commerciali di chiudere sportelli se le comunità locali si opporranno per “evidenti esigenze”.
Ma la comunicazione del Labour si è fatta scaltra: per rassicurare la middle class e quanti si preoccupano dell’equilibrio dei conti pubblici, il manifesto stabilisce che occorre avere a fine legislatura un debito pubblico inferiore a quello attuale, oltre a non indebitarsi per fare spesa corrente. Ma come farlo, vista la mole di esborsi previsti? Dicendo agli elettori che i circa 50 miliardi di sterline di tasse in più l’anno saranno pagate dal “5% più ricco di contribuenti” (quelli sopra le 80 mila sterline annue) e dalle “grandi imprese”. Il che è palesemente irrealistico ma serve a trasmettere l’idea che pagheranno solo i “ricchi” e le grandi corporation. Notevole anche la misura-totem di aumento dello stamp duty sui contratti di borsa, per “punire gli speculatori ed il grande capitale finanziario” ma senza rendersi conto che i primi a pagare sarebbero i rendimenti dei fondi pensione dei lavoratori.
Corbyn da sempre dimostra di non saper far di conto, quindi nulla di nuovo, a parte il messaggio furbetto che si colpirebbe il 5% dei ricchi e non la classe media, che storicamente era la perfetta mucca da mungere per l’Old Labour. Ma davanti ad una May che promette un salto nel buio con la sua ossessione “meglio nessun accordo che un cattivo accordo sulla Brexit”, e che è ancora convinta di riuscire ad evitare di finire sotto il treno della Hard Brexit portando con sé il paese (in essenza, regime di tariffe WTO e perdita del passporting bancario verso la Ue), il laburista propugna la permanenza nel Mercato Unico e nell’unione doganale, anche se si dice favorevole ad una non meglio specificata uscita dalla Ue. Alla fine, il suo messaggio potrebbe anche apparire meno “sinistramente” respingente agli occhi di parte della classe media, facendogli vincere le elezioni pur perdendole. I britannici dovranno scegliere tra gli slogan vieppiù vacui della May, che rischia di passare alla storia come la “Lady di latta”, e la rassicurante “protezione” con coperture finanziarie immaginarie di Corbyn. Al tempo della Brexit, alternative non esattamente rassicuranti.