Sul Corriere, un pezzo di Enrico Marro ci ricorda che gli investimenti pubblici “sono in forte sofferenza”, visto che quest’anno saranno spesi solo 150 milioni dei 624 previsti, e visto che il consuntivo 2016 (l’anno della “flessibilità” europea) ha segnato un calo del 4,5% a fronte di attese per un incremento del 2%. Le cose van così, nel paese dove “la Germania e la Ue ci impediscono di fare sviluppo con la loro ottusa austerità”, dove “dobbiamo scorporare gli investimenti dal deficit”, e dove tutti sono keynesiani con la spesa corrente.
Come ha recentemente affermato Pier Carlo Padoan,
«La dinamica degli investimenti pubblici continua a essere condizionata dai limiti della macchina pubblica che deve migliorare per essere di sostegno alla crescita»
Il che non è davvero male, per il paese che da tre anni starebbe producendo “riforme strutturali” a getto continuo, soprattutto quelle che renderanno la pubblica amministrazione reattiva come uno sprinter giamaicano. Invece, tutto o quasi è fermo. L’Ance, associazione dei costruttori edili, ricorda che con le leggi di stabilità 2016 e 2017 il governo ha stanziato 100 (cento) miliardi di investimenti pubblici legati alle costruzioni. Ricorderete sicuramente l’ultima manovra, il famoso “tesoretto” da 47 miliardi di cui Matteo Renzi e Maria Elena Boschi menano gran vanto, e che altro non è che una nobile “intenzione di spesa“, spalmata su un quindicennio, che andrà quindi finanziata anno dopo anno.
Il punto non è neppure il finanziamento annuale, per quanto si tratti di un impegno medio di tre miliardi annui, che si aggiunge agli investimenti previsti dai 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione, ai 15 miliardi dei cofinanziamenti nazionali di investimenti europei, alle opere di Ferrovie. Il problema, oltre al reperimento delle risorse su base annuale e pluriennale, è procedurale, cioè dall’attivazione degli appalti.
L’Ance ritiene di identificare quattro elementi di freno agli investimenti pubblici:
«1) Gli enti locali, dopo 8-9 anni di Patto di stabilità interno, non sono più abituati a investire e hanno perso competenze; 2) Il nuovo codice degli appalti ha bloccato i bandi di gara fino a quando non sono stati risolti gli innumerevoli pasticci nella normativa; 3) Il contratto di programma dell’Anas è bloccato da 9 mesi. I soldi sono stati stanziati 20 mesi fa, le opere individuate, ma tutto è fermo in attesa di capire come finirà la fusione Anas—Fs; 4) Il ritardo nello sblocco del mega Fondo da 47 miliardi»
Del codice degli appalti e della sua passata azione frenante avete letto anche su questi pixel. Quali che siano i motivi, soprattutto su base procedurale o di competenze in capo ai comuni per la parte di loro pertinenza, la realtà è che l’investimento pubblico in Italia è rattrappito, e non certo per responsabilità di fattori esterni. Né si può parlare di ostacolo agli investimenti rappresentato da una non meglio identificata “austerità”, visto che abbiamo sprecato la clausola degli investimenti concessaci dalla Commissione Ue, e non solo nel 2016, senza pagare peraltro dazio.
Inutile passare il tempo a chiedere improbabili scorpori degli investimenti pubblici dal deficit, date queste premesse: riusciremmo dal primo minuto a gonfiare la spesa corrente, chiamandola “investimento”. Altrettanto cialtrone è prendersela con l’invisibile “austerità”, se abbiamo lustri di fulgida tradizione di spreco di denaro pubblico negli investimenti. Al momento, possiamo darci una pacca sulle spalle e leggere entusiastici editoriali per la spinta all’investimento privato esercitata da agevolazioni fiscali quali superammortamento ed iperammortamento, consapevoli tuttavia che con essi stiamo prendendo a prestito dal futuro. Ma per gli investimenti pubblici proprio non ci siamo.
Ma non disperate: ci resta sempre la possibilità di bacchettare la Germania, “che non investe”. Troppo spesso gli italiani e la loro classe politica scambiano il lato A col lato B, e di ciò i nostri interlocutori di là dal confine sono pienamente consapevoli.