Da ieri, su giornali e social, è tutto un fervore di lazzi all’indirizzo del senatore, dottore in giurisprudenza, già ispettore tecnico assicurativo e capogruppo pentastellato Danilo Toninelli, reo di aver insistito che l’eventuale flat tax, l’altra grande illusione per gonzi elettori italici assieme al reddito di cittadinanza, deve rispettare la progressività costituzionale e non penalizzare le fasce più deboli. Non è una bestemmia, almeno sinché non verrà modificata la Costituzione, ma lascia presagire cosa accadrebbe ove mai i nostri eroi si accordassero per l’agognata imposta ad aliquota invariante.
Oggi potete leggere il commento sarcastico di Mattia Feltri, con le valutazioni del quale sono quasi sempre d’accordo, che irride Toninelli usando l’immagine dell’ossimoro:
«Ecco, la flat tax per definizione non è progressiva: se è progressiva non è una flat tax. Un politico che dice sì alla flat tax purché progressiva è come un meteorologo che dice sì alla pioggia purché asciutta: la comunità scientifica si porrebbe delle domande senza timore di ledere il diritto di opinione. E siccome Toninelli si occuperà di legge elettorale, potremmo ora aspettarci un maggioritario purché proporzionale, o un doppio turno purché unico»
In realtà, per quanto brillante sia la presa per i fondelli, è fallace. Come sappiamo da sempre (almeno, credevamo si sapesse), la progressività si può raggiungere calibrando deduzioni e detrazioni, e mantenendo aliquota nominale unica. Quindi, Feltri sbaglia battuta. E tuttavia, se avete idea di cosa è questo povero paese, riflettete su altro fattoide pubblicato in settimana: secondo uno studio di Unindustria, nel 2016 in Italia esistevano 799 tax expenditures, cioè agevolazioni fiscali di vario tipo, tra deduzioni e detrazioni.
Il totale di queste spese fiscali ammonta a 313 miliardi di euro di base imponibile erosa, con minor gettito pari all’8% del Pil. Nel 2011, quando iniziammo a leggere sui giornali e sentire dai politici che serviva recuperare gettito chiudendo i loopholes fiscali, le agevolazioni erano 720, per 250 miliardi di euro di base imponibile erosa. Secondo Unindustria, siamo al primo posto in Europa per queste caramelle fiscali, lo strumento col quale i politici comprano il consenso di segmenti di elettorato e costringono le aliquote nominali a restare elevate, producendo distorsioni dal lato dell’offerta. Sempre secondo Unindustria, il peso delle tax expenditures su Pil in Germania è dello 0,8%, in Francia del 2,2%, in Spagna del 3,8%.
Questi numeri sono l’indicatore dell’intensità della malattia corporativa di un paese. Non avendo risorse fiscali per ridurre le tasse erga omnes, i politici si inventano le tax expenditures per accalappiare gruppi di elettori. Il circolo vizioso si perpetua, i benefici fiscali diventano “diritti acquisiti” nella patria dei medesimi, e nessuno riesce più a rimuoverli.
Ma che c’entra questo con una flat tax e con l’illustre Toninelli? C’entra, in questo modo. Per avere una flat tax, serve eliminare tutte o gran parte delle tax expenditures. Il recupero di gettito così prodotto serve ad abbattere l’aliquota nominale. Ecco, tra gli altri motivi, perché una flat tax in questo paese non si vedrà mai, o se ne vedrebbe una con aliquota di equilibrio molto elevata: perché ci sarebbero imponenti mobilitazioni per salvare questa o quella agevolazione fiscale. A meno che non siate piccoli Nobel mancati, facciate i politici e spergiuriate che alla fine basterebbe un mega condono per finanziare nel primo anno la flat tax, mentre dal secondo anno il poderoso effetto di emersione ripagherebbe l’aliquota ridotta senza senza toccare le tax expenditures che esistono.
Ora, prendete il ragionamento di Toninelli, e non solo suo. Va bene una flat tax, così negoziamo o fingiamo di negoziare un patto di governo con i suoi sostenitori. Però, però. Però vorrete mai togliere le agevolazioni per carichi di famiglia e pensione, quella per lavoro dipendente, quella per spese sanitarie, quella per interessi passivi su mutui prima casa, quella per l’efficienza energetica, quella per l’arredamento, quella per gli interventi di ristrutturazione edilizia e, mi voglio rovinare, quella per acquisto di piante e arredi da giardino? Eh? Eh?
Mai sia! E allora, per non nuocere alle classi deboli con la flat tax e non violare la Carta, teniamole tutte, queste agevolazioni, e magari allarghiamo la no tax area per i “poveri”. E magari introduciamo qualche altra agevolazione per chi ha basso imponibile, così andiamo ad accentuare la progressività e siamo tutti orgoglioni di combattere povertà e disagio sociale, incapienti esclusi. O no?
Ecco, alla fine di questo processo progressivo e progressista, avremmo un buco di gettito ancora più elevato che con lo status quo ante, una enorme e persistente criticità burocratica da gestione delle eccezioni e della casistica fiscale, e ci servirebbe un’aliquota di equilibrio intorno al 50% per restare a galla. Alla fine, lo scopo esistenziale della flat tax (semplificazione e supply side) verrebbe soffocato nella culla e si riprodurrebbe lo status quo ante non più dal versante di una pluralità di aliquote d’imposta bensì da quello delle tax expenditures. Cambiare tutto per non cambiare nulla, e di certo non l’esito finale. Facite ammuina, qualcuno ci cascherà.
Però nel frattempo abbiamo furiosamente dibattuto il tema, un po’ come accaduto per il reddito di cittadinanza grillino. Il tempo vola, quando ci si diverte. Ed è incredibile come questo paese si perda in polarizzazioni e dibattiti sul nulla. Ma forse tutto ha senso, perché così facendo non ci si avvicina troppo alla realtà e si evita di fare una brutta fine. O meglio, si pospone la resa dei conti.