di Alfredo Ferrante
È stato annunciato sul sito del Ministero dello sviluppo economico che ben dieci direttori generali, dirigenti apicali a capo di strutture complesse e che coordinano altri dirigenti, sono stati “ruotati”. Per i non addetti ai lavori: nessuno dei direttori è stato confermato nella sua precedente posizione ma indirizzato al vertice di un’altra direzione generale, con un ingente giro di valzer che ha interessato i 2/3 delle strutture interne di uno dei ministeri più importanti dell’amministrazione centrale in Italia.
Nel comunicato si legge che lo stesso Ministro ha preso la decisione “in nome di un cambiamento radicale nella gestione amministrativa e nell’azione del Ministero, al fine di assicurare un cambiamento anche nelle prassi” e che “entro giugno si procederà alla riorganizzazione totale del Ministero dello Sviluppo Economico, che prevederà anche l’accorpamento di alcune direzioni con risparmi per le casse dello Stato”.
È facile comprendere che l’episodio colpisca poco l’immaginario dei media e delle opinioni pubbliche e che, al massimo, possa incontrare il favore di chi auspica, più che legittimamente, un rinnovamento nella PA e un risparmio nella spesa pubblica. Tuttavia, alcuni aspetti meritano di essere chiariti.
L’intenzione annunciata della rotazione è quella di introdurre un cambio radicale (quindi una vera e propria rivoluzione, sino alle radici) nella gestione del ministero e nelle prassi: si dedurrebbe, dunque, che la radicalità del cambiamento derivi da una attenta analisi che lo staff del Ministro ha condotto negli ultimi mesi, verificando che la gestione amministrativa, l’azione del ministero nel suo complesso e le prassi in essere non fossero efficienti ed efficaci alla luce degli obiettivi assegnati e al piano della performance del dicastero. In questo caso, i singoli direttori non avrebbero dimostrato, almeno nel periodo in cui il Governo è stato in carica da giugno a dicembre 2018, di essere sufficientemente in grado di gestire le questioni di loro competenza.
Ebbene, se così fosse, occorre ricordare che il Ministro ha in mano una formidabile arma: quella della valutazione. Egli ben può, nell’apprezzare – con l’ausilio dell’Organismo Indipendente di Valutazione – la prestazione del singolo direttore generale per l’anno di riferimento, operare una valutazione negativa del suo operato, tramite una verifica legata alla “qualità del contributo assicurato alla performance generale della struttura, alle competenze professionali e manageriali dimostrate, nonché ai comportamenti organizzativi richiesti per il più efficace svolgimento delle funzioni assegnate” (art. 9, co.1, lett. c della legge 150 del 2009).
Va effettuata, in altre parole, una verifica di chi ha fatto cosa e, conseguentemente, valutare positivamente o negativamente la condotta del dirigente durante l’anno. Perché delle due, l’una: o il dirigente dottor o dottoressa Rossi ha fatto bene, e allora può essere confermato, previo interpello, nel posto richiesto; oppure ha gestito male e si applicano le tante, diverse sanzioni previste, inclusa “l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale” (art. 21, co. 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001).
Si dirà: la rotazione, indipendentemente dalla prestazione del dirigente, è istituto comunque salutare per evitare che ci si fossilizzi in una posizione per lungo tempo. È vero: ma la rotazione trova ragione nel contrasto al fenomeno della corruzione nella PA ed è regolata da norme specifiche, basandosi sulla attenta misurazione del rischio corruzione di ogni singolo ufficio. Sarebbe quindi auspicabile che si chiarisca se lo spostamento di ben 10 direttori sia dovuto a valutazioni non positive, a contrastare il rischio di corruzione o ad altro e su cosa si basi, concretamente, la necessità e l’urgenza di un cambiamento radicale nella gestione amministrativa e nelle prassi.
Senza infingimenti: la questione non investe la capacità propria di ciascun dirigente. Tra costoro possono esserci bravi o meno bravi, adatti o meno adatti, come in ogni organizzazione complessa. Occorrerebbe, a tale proposito, esercitare con maggior coerenza e coraggio la delicata arte della valutazione, a tutti i livelli: le regole vanno applicate proprio per un razionale discernimento di chi meriti o meno e, soprattutto, per accompagnare il cambiamento organizzativo.
La seconda questione investe, invece, l’annunciato risparmio derivante da futuri accorpamenti di strutture dirigenziali. Chiariamo: ogni dicastero si articola in direzioni che trattano questioni specifiche, gestite poi, spacchettate, dai singoli uffici coordinati da dirigenti. Non sono disegni immutabili, naturalmente: cambiano le priorità, i bisogni, le esigenze e, come spesso accade, uffici, direzioni e dipartimenti – financo ministeri – vengono spostati, accorpati, eliminati o ingranditi a seconda della volontà politica del momento.
Quello che è evidente, tuttavia, è che il processo di dimagrimento delle scrivanie, ormai strutturale, ha portato spesso ad un sovraccarico di funzioni che stressano gli uffici, talvolta costretti ad arronzare, dovendo fare i conti con vincoli di risorse (umane e strumentali) e tempi sempre più ristretti. Grazie agli ormai famigerati tagli lineari, si è proceduto con l’accetta senza valutare con sguardo lungo a quali concrete esigenze di politica pubblica corrispondesse quell’ufficio o quel dipartimento. Annunciare, quindi, l’accorpamento di alcune direzioni (due? Tre? Quante?) deve far suonare il campanello d’allarme perché si proceda con una verifica attenta e puntuale di compiti, funzioni e relativi bisogni.
Altrimenti lo sbandierato risparmio dello stipendio di un direttore cassato (magari solo pensionando) per ammassare più funzioni potrebbe, a cascata, ingarbugliare vieppiù l’operatività delle strutture e causare perdite per il sistema in termini di capacità di realizzare politiche a vantaggio dei cittadini: i celebri guadagni di Maria Carzetta, come ricordano, serafici, i romani.
L’apparato amministrativo è servente al Governo e, nel quadro delle disposizioni della Costituzione e della legge, ha il compito di dar corpo alle politiche dell’Esecutivo: non ci piove. E i problemi che affliggono la nostra macchina pubblica sono tanti e assai seri: repetita iuvant. Quelle politiche, tuttavia, camminano grazie alle gambe della macchina pubblica, per il cui miglioramento la politica ha in mano leve efficaci: se l’intento, nel solco di un’abitudine oramai consolidata, è meramente punitivo e propagandistico, si farà poca strada e i risultati saranno scarsi, se non negativi. Il Paese non se lo merita.
Alfredo Ferrante è un dirigente dello Stato, proveniente dalla esperienza dei corsi-concorso della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, oggi SNA, Scuola Nazionale dell’Amministrazione. Presta attualmente servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dove è responsabile dell’ufficio relazioni internazionali presso il Dipartimento per le Politiche della Famiglia.