La zona rossa di un fallimento nazionale

“Io aprirei, chiuderei, ma se vuoi”

Le giravolte, schizoidi e penose, della politica italiana di fronte alla pandemia, hanno messo in evidenza per l’ennesima volta la tragica differenza tra paesi dotati di sufficiente coesione e fiducia sociale e nelle proprie istituzioni, e quelli caratterizzati da individualismo anomico. In questo approccio alla vita di comunità si palesa la radice del dissesto civile italiano.

I fatti: ci stiamo avvicinando all’avvio delle vaccinazioni di massa. Cioè all’inizio della fine della pandemia. Sarà un processo lungo, con enormi insidie soprattutto nella fase di avvio e di creazione dell’infrastruttura logistica sanitaria e di programmazione delle inoculazioni.

Nei giorni scorsi, dall’Italia, si è levata qualche voce a favore del cosiddetto V-Day, cioè del giorno di avvio formale (un kick-off) delle procedure di vaccinazione in tutta la Ue. Valore simbolico, certamente, visto che durante la crisi sanitaria non si è vista molta Europa, a dirla tutta. Ma si può sempre fare meglio.

Il sospetto è che gli italiani vogliano allontanare da sé il biasimo e lo stigma in caso si trovassero in ritardo sull’avvio delle procedure di vaccinazione. Una sorta di “taglio del nastro”, insomma; attività in cui la politica italiana eccelle, dalla creazione dello stato unitario in poi. Mirabili inaugurazioni punteggiano la storia di abietti sprechi di risorse pubbliche (i.e. di soldi dei contribuenti, presenti e futuri), in autostrade che si interrompono nel nulla e scheletri di edifici chiamati ospedali.

Si è quindi autorizzati a pensare che il V-Day venga visto dagli italiani allo stesso modo in cui i medesimi invochino da lustri un sistema di aliquote fiscali europee: per livellare la competizione verso il basso, cioè la posizione in cui di solito il nostro paese si colloca.

Fiori di distrazione di massa

Altro aspetto tipicamente italiano della gestione delle crisi è la retorica annaffiata di un simbolismo dolciastro, spesso stomachevole, a ribadire il nostro eccezionalismo. Che spesso è tale ma in negativo, come manifestazione eclatante di incapacità di pianificazione. Pensiamo ai gazebi per le vaccinazioni, idea dell’archistar Stefano Boeri, che l’ha ceduta a titolo gratuito.

Al netto delle buone intenzioni di Boeri, che comunque non è responsabile della campagna vaccinale, credo sia preferibile concentrarsi sul compito e sul risultato, e non sulla scenografia. Una cosa non esclude l’altra, direte. Vero, ma questo è un paese che sta letteralmente morendo di diversivi, dai banchi a rotelle ai gazebo vaccinali. Il trionfo dell’apparire sull’essere è il biglietto da visita di una società che si è persa per decenni davanti alla televisione e ai suoi contenuti mortalmente vacui.

Poi c’è l’intero capitolo delle norme in pandemia. E qui i confronti sono e restano desolanti per il nostro paese, più che impietosi. È forte il sospetto che la politica italiana sia letteralmente caduta dal letto dopo aver visto e sentito Angela Merkel pronunciare quello che è stato definito il discorso più emotivo del suo cancellierato, e chiedere una nuova stretta durante le feste di fine anno, proprio mentre in Italia la politica, scordando di essere a dicembre durante una pandemia respiratoria, stava fiondandosi a inneggiare alle riaperture, “ché tanto il vaccino è in arrivo”, è il sottinteso ma non troppo.

Raccomandazioni e gride manzoniane

Una stretta, quella tedesca, che si è sostanziata come al solito in un mix di “raccomandazioni” e norme cogenti. Le prime, da noi, vengono bollate come paternalismo oppure come prive di presupposto giuridico, e come tali irricevibili. Ho più volte detto cosa penso di queste prassi e di questa normazione che non è tale ma che in alcune realtà riesce a ottenere risultati.

Il successo deriva dal contesto sociale e dal grado di di fiducia esistente tra istituzioni e cittadinanza. In assenza di quello, si è costretti a puntare a normazione e ipernormazione, con effetti diluiti, disfunzionali o grotteschi. Ovviamente, questo non significa che in Germania la popolazione penda dalle labbra del cancelliere pro tempore. Anche là esistono negazionisti e sub-culture, ma per ora il sistema resta a maggioranza in grado di preservare questa fiducia coesiva, anche grazie alla credibilità personale di Merkel.

Un paese che si riesca a governare per raccomandazioni è un paese che riesce a raggiungere gli obiettivi meglio e con minore costo sociale. Confrontate questo approccio con quello che vediamo in Italia dall’inizio della pandemia. La distanza dalle rime buccali nei “protocolli” per la riapertura delle scuole, le misurazioni ossessive dei centimetri, quasi come se vi fosse un determinismo feroce del virus: a 100 centimetri la salvezza, a 99 la dannazione.

Oltre alla ipernormazione, l’ossessione ritualistica per aspetti minori e non decisivi come rimozione della realtà, dove invece i problemi veri risiedono. La focalizzazione malata sui banchi a rotelle versus l’irrisolta questione dei trasporti pubblici, che nel breve termine non è per definizione risolvibile se non attraverso turnazione di accesso a scuole e uffici. Davanti al niet sindacale scolastico a queste ipotesi di riprogrammazione adattiva, meglio rifugiarsi negli aulici alti lai sulla violenza fatta alle nuove generazioni oppure ripetere ossessivamente che “il virus non è nelle scuole”. La forma è salva, la sostanza no.

Fuori le prove

Ecco, anche questo è un aspetto tipico italiano: di fronte ad un tragico analfabetismo scientifico (e non solo), ci si rifugia nella ricerca di “prove” che tali non sono. L’aspetto più folle di questo approccio italiano è la ricerca di cariche virali statiche e localizzabili nei vari setting. Ci sono più virus sui mezzi pubblici o nei ristoranti? Nelle scuole o nelle famiglie? Orsù, chiamiamo un consulente tecnico d’ufficio e misuriamo il numero di cariche virali per millilitro di materia organica, ovunque!

Quando si è profondamente analfabeti, non solo di metodo scientifico, e si vive da sempre in contesti che sono giochi a somma nulla, dove vinco io e perdi tu anche se siamo sulla stessa barca danneggiata, questi sono gli inevitabili esiti.

Ulteriore riscontro di questo modo di stare al mondo, è la reazione di molti in Italia davanti alla nuova stretta tedesca. “Ma loro hanno una stretta che è nettamente inferiore alla nostra, lo dicono i dati”. Citando studi che segnalano il grado di stringency dei singoli stati durante il lockdown come fosse la Tavola della Legge:

Covid Stringency Index 7 Dec 2020

Peccato che tale pur meritoria metrica soffra del tentativo di rendere oggettive e misurabili anche variabili soft; come le raccomandazioni, appunto. E comunque, rifugiarsi in questi aspetti formalistici anche davanti al grado di impegno delle strutture sanitarie e della mortalità è a sua volta tipico italiano. La forma sulla sostanza della realtà: il marcatore di un modo di stare al mondo che è tragicamente disfunzionale, per una comunità nazionale.

Interlocuzione col virus

Anche la continua modifica dei parametri, alimentata dall’ignoranza dei medesimi, è caratteristico di un paese dove la cultura del mercanteggiamento porta a credere di poter negoziare anche con una pandemia, allo stesso modo in cui si scrivono leggi elettorali o norme fiscali. A conferma, in pochi hanno notato che la nuova stretta “raccomandata” tedesca è figlia di una metrica dominante: il numero di contagi per centomila persone, in media mobile a sette giorni, con soglia di rischio a 50, per la gestione del tracciamento delle catene di contagio.

Noi invece, fedeli al nostro levantinismo, ci prepariamo a far diventare “tutta l’Italia zona rossa” nei giorni di festa, ma solo dopo aver dato il via libera alla circolazione nei piccoli centri contigui: quello dove vivono circa dieci milioni di italiani. Assembramenti paralleli, come le convergenze di morotea memoria. Non può che finire così, in un paese risolutamente anti-cartesiano.

E no, non dipende dal governo pro tempore, l’assenza di programmazione e pianificazione, e l’orientamento a norme e sanzioni come aspetto salvifico o più propriamente di scarico della responsabilità. Semmai, questo approccio è il prodotto tipico di una società minata da diffidenza, ultracorporativismo e approccio a somma nulla tra i gruppi sociali, che tali governi tende a produrre. Anche se è molto comodo pensare che la colpa risieda nel governo di turno e che le cose possano cambiare con esso.

Tanta spesa, poca resa

Lo stesso approccio che da sempre caratterizza la gestione della spesa pubblica italiana, superfluo ribadirlo. Ecco perché, ancora una volta, non possiamo stupirci della miserabile condizione italiana e del suo eccezionalismo negativo, intonato a squarciagola dai balconi, negli spot pubblicitari e nei gazebo con le primule.

Parlando di riti, attendiamoci più avanti anche una bella commissione parlamentare d’indagine sulla pandemia. Servirà a nulla, se non a fertilizzare nuove carriere di arruffapopoli e confermare la predilezione italiana per le fughe dalla realtà.

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