Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha promesso di portare il salario minimo federale, fermo dal lontano 2009 a 7,25 dollari l’ora, a 15 dollari entro il 2025. Decisione motivata con la necessità di combattere la povertà lavorativa, oltre che di fornire potere d’acquisto a soggetti che hanno maggiore propensione al consumo, proprio perché a minor reddito. Ci sono tuttavia alcune incognite di cui tenere conto, non per abbandonare l’obiettivo ma per non correre il rischio di mancarlo.
Nelle zone con minor costo della vita (negli Usa quelle rurali, di solito a maggioranza Repubblicana), l’aumento del salario minimo può causare problemi alle aziende, costringendole a ridurre l’occupazione, con ricadute sui contribuenti in termini di assegni di disoccupazione e altre misure di welfare. Oppure che ci sia un aumento del sommerso, con danno per i lavoratori, che perderebbero i benefici della Social Security.
L’aumento del salario minimo tocca infatti in prima battuta i datori di lavoro; non tutti potrebbero essere in grado di reggerne incrementi sostenuti e concentrati nel tempo. Poi, serve considerare anche gli impatti sulla concorrenza: ad esempio, Amazon paga già oggi 15 dollari l’ora ai neo-assunti, mentre la sua concorrente Walmart si ferma a 11. Amazon ha buon gioco, anche di relazioni pubbliche, a mostrarsi favorevole alla misura voluta da Biden, perché è in grado di reggerla e sperare che Walmart non riesca. [Aggiornamento del 18 febbraio: anche Walmart, grazie a risultati di bilancio estremamente positivi, alza il salario orario d’ingresso a 15 dollari l’ora]
Alcuni economisti, per non correre il rischio di creare disoccupazione aggiuntiva, suggeriscono quindi di usare la fiscalità generale per integrare il reddito dei working poor, magari potenziando l’istituto dell’Earned Income Tax Credit, un credito d’imposta rimborsabile che aiuta chi guadagna poco e che ha quindi il merito di non intralciare le dinamiche di mercato del lavoro né incentivare l’inattività. Possibile quindi ipotizzare un mix delle due misure.
Gride manzoniane
Più in generale, bisogna tener presente che l’offerta di lavoro si adegua alle condizioni della domanda e ai prezzi. Ad esempio, nel Regno Unito, al crescere del salario minimo si è riscontrato un aumento del ricorso al lavoro a chiamata (i famigerati zero-hour contract) ma anche la contrattazione collettiva ha avuto contraccolpi, con riduzioni delle maggiorazioni per straordinari e festivi.
Inoltre, sempre nel Regno Unito, ma non solo lì, l’inadeguato finanziamento delle agenzie governative preposte al controllo del rispetto dei livelli salariali ha determinato un aumento del numero di lavoratori remunerati sotto il minimo legale. Il rischio di grida manzoniana è sempre dietro l’angolo, ogni volta che il potere pubblico si cimenta in misure di controllo dei prezzi.
E in Italia? Dopo alcuni spin populisti, ripresi anche da chi dice di non essere tale, e dopo la surreale richiesta che la Ue adottasse un salario minimo legale comune inteso nel senso di uguale per tutti i paesi, ci si è anche accorti che interferenze nella fissazione di quello che è comunque il frutto di negoziato tra sindacati e datori di lavoro rischiano di causare effetti non voluti, come l’indebolimento di quella contrattazione che si vorrebbe invece irrobustire. Per non parlare delle ricadute della fissazione di un salario minimo legale elevato, attraverso l’impatto sulla scala retributiva parametrale.
Il tutto attendendo i dibattiti nazionali su una direttiva europea che, ovviamente, non ambisce a omogeneizzare il quantum salariale ma a fissare principi per evitare dumping salariale e sfruttamento, consentendo al legislatore di comprendere esigenze e dimensionare di conseguenza le risorse di welfare.
Nel podcast troverete tutto questo e molto altro. Buon ascolto.