PA, l’eterno ritorno della riforma riscaldata

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

che ne dice di riformare i procedimenti amministrativi senza prima realizzare una valutazione di impatto e fattibilità o realizzando riforme che già esistono? Su Il Sole 24 ore del 18 febbraio 2022 nell’intervista titolata “Brunetta al Sole 24 Ore: «Nel nuovo decreto sul Pnrr tempi dimezzati per la Pa» si spiega come fare.

Il sistema, tutto sommato, è semplice. Utilizzare un po’ di demagogia quanto basta, per far precedere la riforma da una consultazione pubblica; prendere 600 procedimenti amministrativi da semplificare e lasciar pensare che siano tantissimi nell’universo della burocrazia costellato da galassie di iter e procedure; affermare di dimezzare la durata dei procedimenti prevista oggi dalla legge 241/1990; sottolineare che la PA deve comportarsi come i venditori di e-commerce, permettendo il tracciamento degli stati della pratica, e la ricetta è servita.

Tempi da tagliare in modo certo e sostenibile

In effetti, Titolare, dimezzare i tempi dei procedimenti amministrativi è operazione semplicissima. Basta agire sull’articolo 2, commi 2, 3 e 4 della legge 241/1990, che dettano tre tipiche durate degli iter burocratici: un termine generale di 30 giorni; un termine speciale previsto da specifiche norme di legge o regolamentari fino a 90 giorni riferito a particolari procedimenti; infine un termine “specialissimo” di 180 giorni quando la natura degli interessi pubblici tutelati e la particolare complessità del procedimento, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, lo richiedono. Dividendo per due questi termini, il loro dimezzamento è cosa fatta.

Ovvio che se in una consultazione pubblica si chieda a cittadini ed imprese se preferiscano un termine di 30 giorni o di 30 secondi si preferisca la seconda ipotesi.

Tuttavia, i temi, per riforme davvero efficaci, non sono la durata del procedimento (come si è visto sopra, se si stabiliscono termini generali brevi, ma derogabili da miriadi di termini speciali più lunghi non si fa molta strada), quanto la certezza dei tempi di conclusione e, ovviamente, la sostenibilità delle possibili abbreviazioni.

Partiamo da quest’ultima. Quando oltre 30 anni fa si adottò la legge sul procedimento amministrativo, appunto la 241/1990, i termini dei procedimenti vennero fissati un po’ così, buttando una durata di 30 giorni, senza un’analisi preventiva.

Simile termine per alcune amministrazioni e per particolari procedimenti può essere ampiamente congruo; per altre amministrazioni, poco dotate di dipendenti (si pensi ai tantissimi comuni con meno di 5.000 abitanti e un numero di travet che si conta sulle dita di due e talvolta una mano) e di strumentazioni, irraggiungibile e non garantibile.

Un contratto di servizio con l’utenza

Intervenire sui procedimenti e sulla loro durata richiederebbe una filosofia del tutto diversa: provare, certo, a fissare uno standard, ma determinarlo in base ad analisi di fattibilità ed adeguando lo standard alle tipologie di iter, di ente, di dotazione tecnica e di personale. Permettendo, poi, a ciascun ente di organizzarsi ed approvare, più che un regolamento, un contratto di servizio con gli utenti, col quale impegnarsi a concludere le pratiche entro un termine, che sia certo.

Nell’intervista, il Ministro parla del rilancio del tema della produttività: verificare che gli enti si attrezzino per rispettare gli standard delle tempistiche e gli impegni presi coi cittadini è una delle modalità più doverose e semplici di valutazione della qualità. A patto che qualcuno si prenda la briga di controllare davvero il rispetto degli impegni e di non attribuire il massimo dei premi se non siano rispettati standard o soglie considerate minime o ottimali.

Per questo genere di risultato, tuttavia, non basta e non serve una consultazione popolare: ci vuole uno studio serio, che coinvolga le varie tipologie di amministrazioni.

Soprattutto, occorre comprendere la vera necessità: non una durata breve o brevissima (che certo piacerebbe), quanto, si ripete, la certezza.

A cittadini ed imprese interessa soprattutto sapere cosa succede se il termine non sia rispettato e se sia possibile ottenere il beneficio anche laddove l’amministrazione non si sia pronunciata.

Di questo, Governo e Parlamento hanno dimostrato di essere consapevoli quando qualche mese fa hanno approvato uno dei tanti “decreti semplificazioni” che non semplificano molto, visto che ad essi continuano a susseguirne altri all’infinito.

Il silenzio-assenso di Kafka

Si tratta dell’indimenticata certificazione del silenzio assenso, un vero inno al dadaismo normativo introdotto dal d.l. 77/2021, il meccanismo perverso secondo il quale fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, e cioè la conclusione positiva del procedimento a vantaggio del richiedente, l’amministrazione rimasta silente deve comunque, su richiesta del privato, rilasciare, in via telematica, un’attestazione che il termine è decorso senza provvedimento espresso e che quindi la domanda è stata implicitamente accolta.

Un silenzio assenso che diviene, quindi, un provvedimento espresso, senza che vi sia nessun controllo sulla circostanza che la PA interessata e inerte risponda davvero e per tempo alla richiesta del privato di formare la certificazione. Tanto è vero che la riforma del 2021 aggiunge che decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta dell’attestazione, essa è sostituita da un’autodichiarazione del cittadino, che proclama sua sponte l’avvenuto silenzio assenso. Il tutto, ovviamente, con un allungamento dei tempi parossistico ed incontrollabile.

È sperabile che l’ulteriore riforma non ripercorra simili modalità, i cui esiti risultano paradossali e di efficacia impalpabile.

Iter tracciabile come una spedizione

Un argomento sicuramente interessantissimo e condivisibile consiste nell’esigenza evidenziata dal Ministro di tracciare gli iter, come si fa con le spedizioni.

Idea ottima. Peccato che non si tratti per nulla di un’innovazione: sarebbe riformare ripetendo riforme già in essere e da parecchio tempo.

Risale a 10 anni fa, infatti, l’articolo 1, comma 30, della legge 190/2012, ai sensi del quale

“Le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui al capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, in materia di procedimento amministrativo, hanno l’obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica di cui all’articolo 65, comma 1, del codice di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase”.

Dunque, è da un decennio che le amministrazioni avrebbero dovuto comportarsi come i vettori postali e gli operatori dell’e-commerce. E il tracciamento delle pratiche, anche a fini di controllo interno e prevenzione della corruzione, è imposto da 9 anni, per effetto dell’articolo 9, comma 2, del dPR 62/2013:

“La tracciabilità dei processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la replicabilità”.

Ripartire dalla digitalizzazione

Inevitabile, Titolare, tornare, dunque, ai temi fondamentali per una riforma reale ed efficace della PA: la concreta ed effettiva digitalizzazione dei procedimenti. Solo con essa è possibile attuare realmente quanto da moltissimi anni è già disposto dalle norme.

Non occorrerebbe, allo scopo, nessuna consultazione, nessun intervento ennesimo sui termini, nessuna alchimia sul silenzio assenso. Basterebbe istituire veri e seri controlli su come, con quali investimenti, con che modalità le amministrazioni analizzano i procedimenti, li digitalizzano, li gestiscono con applicativi on line accessibili dagli interessati mediante Spid o altri sistemi, allo scopo di negoziare, intervenire, tracciare, scambiarsi i dati.

Un sistema simile eviterebbe gli arzigogoli del silenzio assenso certificato: al cittadino, per dimostrare anche a terzi e soggetti privati la formazione del silenzio-assenso basterebbe scaricare il tracciamento della pratica, riportante la data dell’avvio e quella fissata per la scadenza.

Sempre le riforme del 2021 hanno ulteriormente e meglio regolato la piattaforma delle notifiche digitali, che si incastra perfettamente con le disposizioni vigenti da un decennio: ma, ancora, della sua attuazione non v’è traccia. E si sono dovuti aspettare anni ed anni perché venisse standardizzata e digitalizzata, ad esempio, la procedura telematica degli appalti.

Una nuova organizzazione “remotizzabile”

Un suggerimento per valutare le Pa e le loro performance? Verificare quanti e quali procedimenti sono digitalizzati e rispondenti alle norme indicate sopra.

Pensare di agire sulla PA continuando a sfornare leggi, regolamenti, linee guida, Faq, circolari, direttive, risoluzioni, tweet e commenti sulla stampa non conduce molto lontano.

Come si nota, le norme essenziali esistono già. Il passaggio è semplicemente attuarle, controllando che gli enti poi le rispettino e sanzionando chi si ostini ad utilizzare pergamena e penna d’oca, senza indicare termini certi.

Come dice, Titolare? Tutto questo andrebbe certamente ad incastrarsi con un nuovo sistema organizzativo che non potrebbe fare a meno della remotizzazione del lavoro?

Photo by Susan Q Yin on Unsplash

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