Il più grande taglio di tasse dopo il Big Bang

Dopo aver assistito alla notevole performance della premier, Giorgia Meloni, che in poco più di tre minuti di camminata per le lussuose stanze di Palazzo Chigi, mentre tutti attendono di imbattersi da un momento all’altro in una coppia di bimbe gemelle cloni della premier, narra a una steadycam gli eventi epocali che di lì a poco il consiglio dei ministri avrebbe deliberato, ero tentato di fare una sorta di fact checking. Ma sì, quell’inane attività che in Italia abbiamo mandato in vacca a colpi di teatrini di liquame televisivo e scarsa dimestichezza con la logica.

Poi mi sono detto che è tutto tempo buttato, mio e vostro che ancora leggete questi pixel, e stavo per rinunciare. In fondo, la vita è troppo breve per impiegarne un frammento a ribadire l’ovvio e tentare di confutare le sciocchezze che una classe politica, di maggioranza e opposizione pro tempore, ci serve quotidianamente in un processo di rimbecillimento di cui narreranno libri di storia e sociologia scritti dall’intelligenza artificiale.

Ma, mentre stavo per dedicarmi ad altro, una vocina dentro di me si è opposta: “ma perché lasciare correre? Sarà anche tempo perso ma è anche parte del tentativo di fare luce su quello che è fallito in questo paese, oltre al sistema educativo che è alla base di tutto il resto”. E quindi, eccomi qui a cercare di segnalare alcuni aspetti di questa comunicazione surreale, che ha fatto evaporare l’immagine (già piuttosto tremula, come un miraggio) di una premier improvvisamente scopertasi sobria, dopo tanti anni passati a berciare tesi ultra populiste (per usare un understatement) che tuttavia sono esattamente quelle che l’hanno portata sin qui.

Se è vero che l’Italia è il paese dei gemelli, della memoria collettiva più breve di quella di una colonia di lieviti e di contradaioli tonti o finti tali, è altrettanto vero che questo continuo prendersi per i fondelli sta esigendo un prezzo pesantissimo alla nostra comunità nazionale: un declino inesorabile e parallelo allo spopolamento che abbiamo in corso da tempo e che ora sta prendendo velocità, quasi a testimoniare il cupio dissolvi di una comunità nazionale, sfiancata da decenni di stronzate autoinganni e che alla fine si estingue per manifesta incapacità ad adattarsi alla realtà.

Libero tesoretto in libero stato fallito

E quindi, che disse la premier che per quasi sei mesi riuscì ad essere sobria prima di avere una pesante ricaduta? Soprattutto un concetto: quello di tesoretto.

Noi abbiamo liberato un tesoretto di quattro miliardi, grazie ad alcuni provvedimenti che con coraggio abbiamo portato avanti. Penso ad esempio al superbonus, penso alla questione delle accise.

Allora, a parte l’uso del termine tesoretto, che dovrebbe essere causa di spoliazione dai diritti politici e civili, qui pare di capire che Meloni sostenga che, grazie alla riduzione degli esborsi sul demenziale Superbonus e al mancato rinnovo dello sgravio temporaneo sulle accise energetiche deciso dal governo Draghi, avremmo trovato risorse per “tagliare le tasse sul lavoro”. Che non sono tasse ma contributi ma di questo parleremo tra poco.

Se è un merito, peraltro non agli occhi di tutti, aver frenato la dinamica demenziale del Superbonus grillino-contiano (grazie alla decisiva spallata anti-furbi di Eurostat, ma sono dettagli), quintessenza dell’analfabetismo economico, non si capisce quale sarebbe il merito di aver rifiutato di rinnovare uno sgravio temporaneo sui carburanti quando le condizioni di stress più acuto ai prezzi sono venute meno. Certo, si potrebbe osservare che questa è la gente che faceva video berciando contro le accise o che voleva “cancellarle al primo consiglio dei ministri”, ma sarebbe tempo perso.

Malgrado ciò, se siamo al punto di menare vanto per il mancato rinnovo di una spesa pubblica “temporanea”, possiamo (potremmo) trovare motivo di conforto in questa evoluzione verso l’uscita dal bengodismo, il noto male collettivo italiano che rifiuta il concetto di costo opportunità e l’analisi costi-benefici come eresie.

Ma, con quella parola, “tesoretto”, che è sinonimo di deficit aggiuntivo o di mancata spesa che, come tale, può essere destinata ad altro, Meloni evidenzia una tragica ricaduta nel bengodismo, solo lievemente rettificata dalla sempre più evidente ristrettezza di risorse che attanaglia il nostro paese.

Ma Meloni dice anche una cosa non vera, perché nel DEF il governo ha trovato questi 3,4 miliardi per il 2023 semplicemente aumentando il deficit rispetto al tendenziale, per lo 0,15% del Pil. Non son bastati i “risparmi” di minore spesa, per arrivare a questo mini-intervento che sembra maxi solo perché spalmato in un semestre. No, abbiamo dovuto fare altro deficit rispetto al tendenziale. E lo abbiamo chiamato “tesoretto”.

E oggi destiniamo l’intero ammontare di quel tesoretto al più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni.

Eh, la madonna!”, avrebbe esclamato Renato Pozzetto. E qui parte il fact checking matto e disperatissimo, come avrebbe detto quell’allegrone di Leopardi. Ad esempio, che Renzi ha fatto ben altro, coi suoi dieci miliardi annui da 80 euro poi portati a cento da Conte. Sono le famose “prestazioni sociali in denaro” che, gonfiandosi come un bubbone nel bilancio dello Stato, pensano di supplire all’assenza di crescita. O magari di stimolare la stessa. Un welfare scandinavo in un paese a metà strada tra Medio Oriente e Sudamerica, ricordate?

Il deficit s’incunea

Questa decontribuzione, oggi rafforzata da Meloni, è stata introdotta dal governo Draghi come soluzione temporanea, in attesa di un governo stabile uscito dalle urne, come ammortizzatore allo shock inflazionistico a beneficio dei redditi più bassi o medio-bassi. Quindi una soluzione per definizione transitoria. Il governo Meloni ha prorogato la misura per l’intero 2023 e ora la potenzia, sempre a termine e a deficit. Renderlo permanente su queste basi vuol dire trovare dieci miliardi annui mentre sta per ripartire il Patto di Stabilità, nella sua rinnovata versione che tuttavia causerà comunque robuste emicranie a un paese instabile e fragile come il nostro.

Ma c’è altro: questi interventi, mirati a “mettere soldi nelle tasche degli italiani” si susseguono ormai da tempo immemore. Ricordiamo la famosa manovra sul cuneo fiscale di Romano Prodi, che fu acqua fresca e ripartita tra aziende e lavoratori, e lasciò tutti scontenti. Del “bonus Renzi” si è detto. Ora questo. Il problema è che le retribuzioni si affossano lentamente ma inesorabilmente nel paese che non cresce e non riesce a sviluppare la propria produttività. Il cuneo fiscale e contributivo persiste e insiste, dove il valore aggiunto non si sviluppa.

In tal modo, la politica è costretta ad intervenire nel solo modo che conosce, cioè a deficit che diventa debito, con immancabili effetti speciali da baraccone di paese. C’è un ruolo di supplenza del bilancio pubblico alla incapacità di crescere. Ovviamente, ma non a tutti è ovvio, questa dinamica porta solo agli ormai tradizionali esiti di autofagia che ben conosciamo e segnaliamo da lustri. Il paese che divorò se stesso, tentando di sollevarsi per le stringhe.

Anni passati a impiombare il bilancio pubblico di voci temporanee che diventano permanenti, a lottare contro la realtà e il suo inesorabile bias neoliberista e austero hanno prodotto questo modo di governare a mezzo di social, senza più l’ombra di quella continenza da freni inibitori che ormai consente di definire “il più grande taglio di tasse sul lavoro degli ultimi decenni” una erogazione a termine di quattro miliardi a deficit. E al domani ci penseremo.

A latere e a margine, osserviamo che interventi di questo tipo si risolvono nell’aumento della quota di spesa assistenziale a carico della fiscalità generale e permetteranno, tra qualche decennio, al sindacalista futuro ma soprattutto passato di strepitare da un palco “ora basta con gli attacchi alle pensioni, bisogna separare la spesa previdenziale da quella assistenziale e vedrete che la prima è ben più che sostenibile”. E lo diranno, nel 2043, mentre sarà in discussione Quota 41 per le pensioni e i pochi lavoratori rimasti in questo paese avranno ognuno sulle spalle una ventina di pensionati e i loro progetti di vita, mentre le aliquote contributive saranno nel frattempo state “temporaneamente” portate al 50%. Ma solo per i kulaki over 35 (mila lordi annui), s’intende.

Ma se le cose stanno così, allora meglio l’opposizione!, diranno i miei lettori di robusta fede binaria. Beh, certo: quelli della redistribuzione ossessivo-compulsiva e dei prelievi ai riccastri e ai kulaki over 35 (lordi annui). Anche questa è una forma di autofagia, lo sapevate? Ma non mi sento di accusare nessuno, ormai. O meglio, sono talmente sfinito che assegno a tutte le contrade una robusta attenuante generica chiamata demografia. Sbagliando, lo so, ma non avendo ambizione politica (in questo paese), evito di fondere ulteriori proiettili d’argento. Per non inquinare ulteriormente falde che già si stanno prosciugando.

E ora, s’avanzino i semiologi e gli esperti di comunicazione: la pista principale del circo Italia è loro. L’unico circo a ruoli invertiti: quello in cui, quando cadono i clown, entrano gli acrobati.

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