Le conseguenze dello scoppio della bolla immobiliare cinese sono ancora molto vive e presenti nel tessuto economico e sociale del paese, malgrado il grande lavorio del regime per ripulire la scena. A cinque anni di distanza da quel tentativo delle autorità di disintossicare gli sviluppatori immobiliari dalla droga del debito, che di fatto è stato lo spillone sulla bolla, il mercato pare non aver ancora toccato il fondo.
Caduta senza fine
I prezzi delle case nuove e di quelle esistenti sono in calo più o meno continuo da agosto 2021, con ulteriore accelerazione il mese scorso per il nuovo. I dati più recenti mostrano che gli investimenti immobiliari da inizio anno si sono contratti nel modo più rilevante dai tempi del primo shock Covid, nel 2020. Sempre in settimana è stato ufficializzato che il primo storico sviluppatore cinese, Evergrande, vedrà il delisting dal mercato azionario.
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Le autorità hanno provato di tutto, da condizioni di prestito più favorevoli a tagli dei tassi d’interesse a un piano per emulare il modello di edilizia sociale di Singapore. La contrazione persistente dei valori immobiliari, a sua volta, continua a pesare sui consumatori cinesi. I livelli di fiducia, inizialmente colpiti dalle restrizioni pandemiche all’inizio del 2022, non si sono mai ripresi. Tutte le promesse di aiuto del governo non sono riuscite a sollevare il morale delle famiglie. La visione del futuro espressa dai mutuatari è così cupa che molti hanno deciso di ridurre il debito, causando la prima contrazione dei prestiti bancari cinesi in due decenni.
Oltre che il morale dei consumatori, le autorità devono gestire la condizione degli sviluppatori, sempre più fragili. Dopo il fallimento di una precedente simile iniziativa posta in capo alle amministrazioni locali, ora il governo centrale starebbe meditando di ordinare alle banche pubbliche e ai gestori di crediti in sofferenza di comprare le case invendute. La banca centrale cinese avrebbe a tal fine predisposto una linea di credito di 300 miliardi di yuan, equivalenti a circa 41 miliardi di dollari.
Compratore pubblico di ultima istanza
La misura deve ancora essere finalizzata ma i 408 milioni di metri quadri stimati di invenduto (praticamente la dimensione di Detroit) sono un incentivo a prendere misure drastiche. Al passo attuale delle vendite, servirebbero quattro anni per eliminare l’invenduto. Ecco perché il regime sta pensando anche di togliere il tetto al prezzo massimo di acquisto degli immobili. Praticamente, un bailout dei costruttori che resterà nella storia del paese.
Quando il settore immobiliare è finito nei guai, il governo aveva chiesto alle due bad bank di sistema, Huarong e Cinda, di intervenire nelle ristrutturazioni e comprare i crediti in sofferenza. Poi, nel 2023, la banca centrale ha messo a disposizione degli sviluppatori immobiliari una linea di credito di 80 miliardi di yuan al tasso di 1,75 per cento, e chiesto alle bad bank di eguagliare quell’importo con fondi prelevati dalle loro riserve.
La ripulitura non è andata lontano, anche perché nel frattempo le quattro maggiori bad bank pubbliche si sono a loro volta ritrovate zavorrate di sofferenze il cui valore stimato di recupero si era nel frattempo affossato. Il tentativo di mettere un “pavimento” ai prezzi immobiliari è peraltro ostacolato dalla debolezza della domanda interna, col morale dei consumatori, come detto, non esattamente stellare. Le recenti rottamazioni di auto, mobili ed elettrodomestici sussidiate con soldi pubblici si sono rivelate per quello che erano: una droga temporanea, prendendo a prestito dai consumi futuri.
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Malgrado ciò, e la prospettiva di un enorme debito pubblico-ombra che sta formandosi “da qualche parte” nei conti pubblici, le autorità confermano la loro indubbia abilità a spazzare la polvere o più propriamente le macerie sotto al tappeto e mostrare sui mercati finanziari il volto “vincente” dell’economia nazionale.
Come segnala il Financial Times, quasi tutti i rating assegnati alle nuove emissioni di obbligazioni societarie cinesi sono tripla A. Secondo analisi di Goldman Sachs e del data provider cinese Wind, nel primo semestre di quest’anno ben il 90 per cento delle nuove emissioni dotate di rating gode del massimo merito di credito. Nel 2016 tale proporzione era intorno al 50 per cento. Il fenomeno è stato ribattezzato “inflazione da rating”.
Inflazione da rating
Questa proliferazione di bond di presunta massima affidabilità avviene nel contesto del già citato scoppio della bolla immobiliare, di quella sempre più probabile del settore auto (la famosa “Evergrande a quattro ruote”) e della guerra commerciale con gli Stati Uniti di Donald Trump. Il regime non vuole più vedere default, e infatti i default sono scomparsi. I debitori più fragili non emettono più bond e reperiscono eventualmente le risorse per altre vie, rigorosamente pubbliche. Lo stesso accade alle amministrazioni locali e ai loro veicoli di finanziamento, nati per sostituirsi agli sviluppatori e che sono rapidamente finiti impiombati costringendo l’autorità centrale a intervenire.
Quello che occorre sapere, di questo quadro, è che i rating alle emissioni obbligazionarie corporate cinesi sono forniti da agenzie domestiche, che sono in prevalenza legate allo stato e devono iscriversi a un apposito registro tenuto dalla banca centrale. Come si nota, tutto molto “libero mercato”. Le più celebri e assai criticate (non senza ragione) agenzie statunitensi, Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch, hanno in Cina una presenza decisamente minore e devono comunque giocare con le regole locali.
C’è un fenomeno che indirettamente segnala l’anomalia di questa “operazione rating massimo”: malgrado la proliferazione, lo spread del debito tripla A rispetto ai titoli di stato resta stabile anziché contrarsi come ci si aspetterebbe dato l’incremento di qualità di tale debito societario. Xi Jinping fa i rating ma non i coperchi, si potrebbe dire.
Se è vero che nel primo semestre il 90 per cento delle emissioni di debito a cui viene assegnato un rating sono state tripla A, c’è però da precisare che l’80 per cento del totale delle emissioni resta privo di rating, anche se in questo caso si tratta di debito emesso per la quasi totalità da aziende che hanno rating emittente pari a doppia o almeno tripla A. Un dipendente di agenzia pubblica segnala al FT che in passato le autorità “sconsigliavano” le assicurazioni di investire in debito con rating inferiore a doppia A, mentre oggi quel debito è semplicemente sparito dal mercato. Il governo sa perfettamente dell’inflazione da rating e sa che aziende con rating di singola A, che in occidente sono comunque considerate buoni debitori, sono in realtà molto rischiose.
Tutto sotto il tappeto
Quindi, mentre nel mondo il rating societario medio è in costante erosione e gli emittenti tripla A stanno diventando sempre più rari, in Cina accade l’opposto, grazie ai magheggi delle autorità. Che, di fatto, anche qui spazzano sotto al tappeto le macerie di debitori pubblici e privati sempre più deboli, e che tuttavia tentano di tenere in vita attraverso interventi di vario tipo “dietro le quinte”. Se la tripla A cinese sta diventando simile alla tripla B occidentale (o giù di lì), il governo “rimedia” filtrando gli accessi al mercato del debito obbligazionario e impedendo che l’infezione si allarghi a investitori istituzionali eccessivamente creduli e diligenti.
Per quanto tempo ancora potrà durare questa finzione e questa distruzione di valore dell’economia, visti i patologici eccessi di capacità di molti settori e la situazione del commercio internazionale? Prima o poi a queste aziende zombie dovrà essere data degna sepoltura, e in quel momento si porrà il problema di chi in esse lavora.



