Dopo lungo negoziato per definire i dettagli, successivamente alla creazione della “cornice”, Giappone e Stati Uniti hanno emesso una dichiarazione congiunta e un memorandum d’intesa a seguito dei quali Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo che riduce al 15 per cento i dazi “universali” sulle merci giapponesi e quello settoriale sulle auto esportate da Tokyo, oltre a cessare il cumulo di dazi.
Investimenti imposti
Il fulcro dell’intesa, come noto, è dato dall’accettazione giapponese a effettuare maggiori importazioni di prodotti statunitensi ma soprattutto a investire ben 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti, “dietro istruzioni di Trump”, per ottenere la riduzione dei dazi. Quest’ultimo punto, in particolare, è costruito in un modo che ricorda le riparazioni di guerra.
Inizialmente, come riporta la stampa giapponese, pare che a Tokyo avessero ritenuto non necessario il dettaglio operativo delle misure. Questo candore, o furbizia, è stato premiato con la reiterazione di minacce americane, oltre che con la mancata emanazione dell’ordine esecutivo che riduce i dazi sulle auto nipponiche, i cui costruttori nel frattempo stavano copiosamente sanguinando cassa e utili.
E così Ryosei Akazawa, capo negoziatore giapponese e ministro della cosiddetta rivitalizzazione economica di un governo, quello di Shigeru Ishiba, morto da tempo e oggi pure col premier finalmente dimissionario, ha fatto buon viso a cattivo gioco. Anzi, direi pessimo.
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In dettaglio, i 550 miliardi di dollari vanno investiti entro il 19 gennaio 2029, ultimo giorno di Trump alla Casa Bianca (a meno di qualche golpe più o meno camuffato); la selezione dei progetti di investimento strategici (semiconduttori, farmaceutica, cantieristica, minerali critici, pipeline, intelligenza artificiale, quantum computing) è demandata a un comitato presieduto dal Segretario al Commercio, Howard Lutnick, che presenterà a Trump un menù di opzioni. Il comitato non avrà membri giapponesi, che invece saranno presenti in un comitato di consulenza, come la più trasparente delle foglie di fico.
Altro punto critico, e temo che finirà col produrre nuove tensioni e minacce americane, è quello del finanziamento di tali investimenti. Mentre i giapponesi, analogamente ai sudcoreani (che hanno firmato un modello simile ma per 350 miliardi di dollari), parlano di esborsi in denaro sotto forma di capitale proprio (equity) ma anche prestiti e garanzie su prestiti fornite da Japan Bank for International Cooperation, Nippon Export ed altre analoghe istituzioni, gli americani enfatizzano il cash sostenendo che, se i giapponesi non metteranno a disposizione le risorse al più tardi entro 45 giorni dalla scelta degli investimenti da parte della Casa Bianca, ciò rappresenterà violazione degli accordi con conseguente aumento immediato dei dazi.
In altri termini, se un progetto di investimento di Trump non dovesse trovare capitali statunitensi prontamente disponibili, i giapponesi dovranno comunque sostenere esborsi, vien fatto di capire.
Ma in che modo i giapponesi recupereranno gli esborsi? Spartendosi in pari misura i profitti con gli americani sino al recupero dell’investimento. Dopo di che, il rapporto di distribuzione degli utili diventa 90 a 10 per Washington per tutta la restante vita utile dell’investimento. Nella sostanza, la prima parte equivale a un debito obbligazionario che viene ripagato se tutto va bene, la seconda alla effettiva compartecipazione agli utili. Altro zuccherino: quando possibile, le aziende giapponesi avranno priorità negli appalti.
Proteggere il riso locale, malgrado tutto
Altri punti del memorandum: riguardo l’energia, e premesso che gli americani vorrebbero far costruire ai giapponesi una pipeline con l’Alaska da 44 miliardi di dollari, Tokyo comprerà gas naturale liquefatto (LNG) per 7 miliardi di dollari annui. Uno dei maggiori trader di energia giapponesi ha dichiarato che il deal è fattibile, perché il LNG americano è prezzato in modo competitivo e quindi può essere rivenduto a terzi.
Ancora: il Giappone si impegna ad aumentare l’import di riso statunitense del 75 per cento ma, a protezione dei propri coltivatori, ha stabilito che queste importazioni saranno entro la quota esistente a dazio zero, non aggiuntive. Il che significa che, per accomodare gli americani, altri esportatori di riso in Giappone verranno penalizzati, uscendo dalla quota in esenzione di dazi. Le vittime predestinate sono Thailandia e Australia. Domanda: che accadrà in caso le importazioni di riso statunitense in esenzione di dazi si rivelassero più costose di quelle dai paesi sacrificati?
Ci sarà modo e tempo per scoprirlo ma dal caso del Giappone, primo paese a raggiungere i dettagli operativi dell’accordo bilaterale con gli USA, possiamo trarre alcune considerazioni: Trump sta creando il famoso “fondo sovrano americano” in questo modo, cioè con soldi dei paesi partner commerciali degli USA, che in tal modo pagano il ticket per accedere, comunque non a dazio zero, al maggior mercato di consumatori del pianeta. Qualcuno deve aver fatto dei calcoli di convenienza, almeno credo e spero per loro.
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Ma quegli investimenti, come tutti gli investimenti, potrebbero anche andare male. Oppure andare bene, in quel caso sottraendo risorse a quelli domestici. Ma questa è la caratteristica dei diktat di Trump: drenare risorse e aziende agli altri paesi.
Che accadrà alla Ue?
Veniamo a noi europei: l’accordo con la Ue prevede una struttura molto simile a quella giapponese. Il che vuol dire 600 miliardi di dollari di investimenti aggiuntivi dalla Ue agli USA, da effettuare sempre entro la fine del mandato di Trump. Attenzione: se i termini non saranno solo simili ma proprio identici a quelli giapponesi, non parleremo più di stima realistica di investimenti da parte di aziende private europee “che ci sarebbero comunque stati”. Il che vuol soprattutto dire che bisognerà decidere chi, a livello Ue, erogherà i fondi per gli investimenti, oppure i prestiti o le garanzie sui medesimi. Pensate l’atroce beffa: creare degli eurobond o garanzie collettive per pagare gli investimenti agli americani.
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Ancora: gli acquisti energetici Ue dagli USA sono stati stabiliti in 750 miliardi di dollari di acquisti aggiuntivi entro fine 2028. Poiché si tratta di cifra iperbolica, oltre che palesemente irrealistica, avremo anche in questo caso attività di trading con rivendita da parte dei player europei che procederanno agli acquisti? Lo scopriremo. Per ora, la parte di investimento non è stata strutturata, il che vuol dire o che Trump se ne è “scordato” oppure, più verosimilmente, che la tirerà fuori al momento opportuno.
Se considerate che la Ue è già minacciata di ritorsioni per la multa a Google ma soprattutto perché c’è motivo di dubitare che le Big Tech rinunceranno a chiedere a Trump di smantellare il Digital Services Act europeo, avete un primo assaggio di quello che potrebbe attenderci. Della serie “bisogna colpire gli americani dove fa più male, nei servizi digitali”. Siete sicuri, segretaria Elly Schlein, che a farsi male in quel caso sarebbero gli americani?
(Photo by 内閣官房ホームページ, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)




