Come ormai noto, la Cina domina il mercato delle terre rare, controllando quasi il 70 per cento della produzione e altrettanto della raffinazione. Nei giorni scorsi, Pechino ha ulteriormente stretto i controlli sull’export: le aziende straniere dovranno ottenere l’approvazione cinese prima di riesportare beni contenenti almeno lo 0,1 delle terre rare in lista critica (12 su un totale di 17).
Le esportazioni destinate al settore della difesa saranno vietate e verrà introdotto un sistema caso per caso per tecnologie all’avanguardia come microchip e intelligenza artificiale che possono avere implicazioni dual-use, civile e militare. Ulteriori vincoli saranno applicati alle tecnologie relative a estrazione, fusione, riciclaggio delle terre rare e alla produzione di magneti. Il Ministero del Commercio cinese ha motivato l’azione con l’utilizzo decisivo di terre rare nel settore militare.
Donald Trump, come sappiamo, ha reagito con furia e la minaccia di dazi al 100 per cento a carico della Cina da novembre, come mossa negoziale in vista del suo incontro con il leader cinese Xi Jinping al vertice Apec in Corea del Sud, giovedì 30 ottobre. Il Segretario al Tesoro, Scott Bessent, afferma di aver avuto colloqui molto proficui con la controparte cinese, ai margini del vertice Asean di Kuala Lumpur. Vedremo come finirà, questo ennesimo “accordo per trovare un accordo”, magari con la solita promessa cinese di comprare più soia dagli Stati Uniti. Bessent si attende il rinvio di un anno della stretta cinese, e questo diverrebbe il nuovo orizzonte negoziale.
Stretta all’Europa
Ma questa stretta colpisce con violenza anche e soprattutto i paesi europei, costringendo la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ad annunciare la pubblica consultazione di un piano denominato RESourceEU (la Commissione è molto fantasiosa, quando si tratta di nomi di programmi e relativi acronimi), che prende ispirazione dal REPowerEU, con l’obiettivo di garantire l’accesso a fonti alternative di materie prime critiche a breve, medio e lungo termine, accelerando le partnership con paesi come Ucraina, Australia, Canada, Kazakhstan, Uzbekistan, Cile e Groenlandia.
Il piano si basa su tre pilastri: incremento di produzione e capacità di trasformazione domestica, resilienza delle catene di approvvigionamento e istituzione di un centro congiunto di acquisto e stoccaggio strategico ispirato al modello giapponese. Il piano svilupperà la base fornita dal Critical Raw Materials Act (CRMA), entrato in vigore nel maggio 2024, che stabilisce obiettivi ambiziosi per il 2030: il 10 per cento del fabbisogno annuale di materie prime critiche deve provenire da estrazione domestica Ue, il 40 per cento deve essere processato nell’Ue e il 25 per cento deve provenire da riciclo, limitando la dipendenza da un singolo Paese terzo al di sotto del 65 per cento. Ad oggi, sul suolo Ue non esistono miniere attive di terre rare.
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Tutto molto bello ma le difficoltà causate dalle diverse preferenze nazionali torneranno a danneggiare la capacità europea di creare qualcosa di efficace. I francesi spingono per l’uso dello strumento anti-coercizione contro la Cina, se Pechino non allenterà la morsa sull’export di terre rare, ma ormai Emmanuel Macron è diventato un incrocio tra un’ombra e un attore prossimo al sipario. I tedeschi insistono a credere di poter salvare la loro industria dell’auto, che in Cina è avviata all’estinzione, ma tutto ciò determina l’impossibilità a raggiungere la maggioranza qualificata per approvare l’uso dello strumento. Poi ci sono paesi come l’Ungheria, dove i cinesi hanno investito molto, quindi non se ne parla a dar loro fastidio.
Nel frattempo, premesso che per realizzare qualcosa che assomigli ad una vera autonomia strategica servirà un decennio, e nel frattempo alcuni dei minerali oggi critici potrebbero aver cessato di esserlo, costringendo quindi Bruxelles ad aggiornare burocraticamente la lista, c’è un problema immediato ben più grave, derivante dal controllo dell’export da parte della Cina, e riguarda soprattutto ma non esclusivamente i tedeschi.
Spionaggio industriale con vittime collaboranti
In base alle nuove regole cinesi, le aziende straniere devono presentare dati molto dettagliati e riservati per ottenere una licenza di importazione di sei mesi per i minerali critici. In pratica, una full disclosure che mette i cinesi in condizioni di realizzare una forma molto pervasiva di spionaggio industriale senza neppure darsi l’incomodo di cercare informazioni furtivamente. I moduli richiedono foto dei prodotti che mostrano la disposizione dei minerali, diagrammi di produzione e dettagli sui clienti. In alcuni casi, la domanda richiede dati sulla produzione annuale degli ultimi tre anni e dati previsionali per i prossimi tre anni.
Queste informazioni potrebbero essere usate dalla Cina per identificare vulnerabilità strategiche della filiera tedesca, mostrando ad esempio quali sono le aziende che hanno un solo fornitore cinese o un basso livello di scorte. Le aziende tedesche, secondo stime di un think tank, ottengono il 95 per cento delle terre rare dalla Cina, percentuale di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo.
I cinesi potrebbero quindi, usando la leva della debolezza tedesca, disarticolare intere filiere europee dove i tedeschi sono capofila, e soprattutto potrebbero mandare a monte i programmi tedeschi di riarmo, e di conseguenza quelli dell’intera Europa.
Né pare esservi possibilità di provvedere a fare scorte: le autorità cinesi hanno già detto che ogni ordine eccedente il fabbisogno storico varrà presunto come destinato a usi militari o a contrabbando negli USA. Perché “la Cina vuole proteggere la pace nel mondo”, dicono a Pechino, con capacità di trolleggio non comune.
Il governo tedesco, accortosi dell’andazzo, sta correndo ai ripari -si fa per dire- chiedendo alle aziende di rispondere a questionari sulle richieste cinesi. Le aziende tedesche pare non rispondano, evidentemente per scetticismo sulla capacità del loro governo di proteggerle dalla Cina ma timorose che, rispondendo, possano essere messe in circolazione informazioni critiche, a tutto vantaggio della concorrenza domestica. È tutto molto grottesco, ma è così. Il governo di Berlino non ritiene tuttavia di imporre l’obbligo di comunicare tali dati, visto che le aziende tedesche ormai passano il tempo a lamentarsi per la “burocrazia”, che tipicamente è quello che si fa quando la domanda di propri prodotti si prosciuga.
Il problema tedesco è il problema europeo: la Cina esercita pressione sul paese più vulnerabile strategicamente, sapendo che quest’ultimo è privo di leverage perché non ha alternativa, e in questo modo porta a casa il risultato nei confronti dell’intera regione. La situazione tedesca è talmente critica, oltre che umiliante, che il suo ministro degli Esteri, Johann Wadephul, ha rinviato il viaggio previsto a Pechino per sollevare il tema dell’export di minerali critici. Il motivo? Insufficiente numero di incontri previsti con esponenti cinesi.
Il caso Nexperia
Ma il problema delle filiere europee e della loro dipendenza si coglie anche fuori dall’ambito dei minerali critici, ed è evidenziata dalla vicenda Nexperia. Azienda di semiconduttori con sede a Nijmegen ma controllata dalla cinese Wingtech Technology, di cui il governo olandese ha preso il controllo lo scorso 30 settembre facendo ricorso a una legge d’emergenza degli anni ’50 dal nome che rischia di essere un ironico contrappasso (Goods Availability Act). Il 7 ottobre è stato rimosso il Ceo cinese, Zhang Xuezheng; il 4 ottobre la Cina aveva bloccato le esportazioni dei chip prodotti da Nexperia in Cina.
La decisione olandese è arrivata dopo pressioni americane: Washington aveva avvertito L’Aia che Nexperia sarebbe rimasta nella lista nera americana se l’a.d. cinese fosse rimasto in carica. Il 10 ottobre i produttori automobilistici europei hanno ricevuto comunicazione che Nexperia non può più garantire le forniture. Le scorte attuali dureranno solo poche settimane, con rischio di blocco produttivo entro fine mese.
Nexperia produce semiconduttori “basic” ma essenziali – diodi, transistor, componenti per unità di controllo motore, airbag, sistemi di assistenza alla guida, gestione batterie nei veicoli elettrici. Senza questi chip, anche le auto più avanzate non funzionano, e non possono essere sostituiti con chip più complessi. L’associazione automobilistica tedesca VDA ha avvertito di “forti restrizioni produttive, fino a veri e propri fermi delle linee di montaggio”. Volkswagen ha istituito una task force d’emergenza, Bosch ha confermato di essere all’opera per ridurre l’impatto.
Anche se i produttori possono rivolgersi a fornitori alternativi, cosa che sta accadendo, l’omologazione di nuovi fornitori per componenti specifici solitamente richiede diversi mesi – un tempo che l’industria non ha. La crisi Nexperia conferma la fragilità delle filiere europee, strette tra le tensioni USA-Cina e la dipendenza da fornitori dominanti e in posizioni geopolitiche critiche. E il caso Nexperia sintetizza quello che può accadere quando gli europei forzano la mano di carte che non hanno. Altro che strumento anti-coercizione.
È il mondo a blocchi, quello dove l’Europa rischia di andare in pezzi.
(Immagine AI creata con Grok)



