Oggi sciopero dei sindacati autonomi delle aziende di trasporti pubblici contro il rinnovo della parte economica del contratto di lavoro, di cui i cobas rifiutano l’accordo raggiunto. A beneficio di quanti si genuflettono per riflesso pavloviano di fronte alla Costituzione (anche noi usiamo la maiuscola per deferente riflesso condizionato) vorremmo timidamente ricordare che esiste almeno un articolo della nostra carta fondamentale che è di fatto disapplicato, dopo quasi sessant’anni di “benevola negligenza” da parte del legislatore:
Art.39 L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Ebbene, questo articolo non è mai stato applicato: non esiste alcun “albo” pubblico a cui i sindacati debbano registrarsi; gli statuti interni dei sindacati non sono di fatto assoggettabili ad alcun controllo esterno di legittimità e “democraticità”; i sindacati, in assenza della registrazione, non hanno mai acquisito personalità giuridica, rimanendo di fatto allo stato di associazioni di privati cittadini; la disciplina della rappresentanza proporzionale non è mai stata introdotta, al punto che oggi, sul rinnovo dei contratti collettivi, per attribuire efficacia obbligatoria nei riguardi di tutti (“erga omnes”), attualmente si procede in due tappe:
1. i ministri competenti individuano – sulla base di una direttiva-circolare della Presidenza del Consiglio del 1991 – i “sindacati maggiormente rappresentativi” (criterio-guida è la “consistenza associativa”) da convocare alla contrattazione (sono ogni volta un gran numero):
2. il contratto (nazionale) così stipulato viene recepito in un decreto del Presidente della Repubblica ed esteso a tutti gli appartenenti alla categoria (quindi anche a coloro che non sono iscritti ad alcun sindacato) cui il contratto si riferisce (legge n. 741 del 1969).
In tal modo viene almeno individuata “la retribuzione in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito” (art. 2099 del codice civile, cui si richiama la magistratura), quel salario minimo che intende soddisfare i requisiti richiesti dall’art. 36. Va anche ricordato che il salario minimo così individuato è, secondo l’art. 2113 del codice civile, irrinunciabile: si tratta insomma di un altro diritto indisponibile.
In Italia, esiste ormai una consolidata liturgia, secondo la quale i sindacati dovrebbero partecipare alla definizione della politica economica, affiancando il governo e, molto spesso, sostituendosi ad esso. Ove si pensi che, soprattutto tra i maggiori sindacati, i pensionati rappresentano metà (e più) degli iscritti, appare del tutto evidente l’anomalia di organizzazioni di privati cittadini, meno della metà dei quali è rappresentata da lavoratori in attività, che intenderebbero guidare la politica economica del paese.
Ma i tempi cambiano per tutti, anche per il nostro bizzarro paese, e ci si chiede a cosa possa essere servito lo sciopero generale di ieri. O meglio, cosa possono opporre i sindacati ad un governo che si dimostrasse del tutto indifferente alla liturgia dello sciopero generale.
P.S. Restano in piedi tutte le perplessità per la tempistica della manovra sul taglio delle tasse. Ammesso e non concesso che una manovra pari allo 0.5 per cento del prodotto interno lordo possa avere tutte queste virtù taumaturgiche sulla domanda interna; ammesso e non concesso che il blocco del turnover nella pubblica amministrazione possa essere effettivamente applicato, la manovra avrebbe avuto ben altra portata se fosse stata varata all’inizio della legislatura, e non ora, a 5 mesi dalle elezioni regionali e a meno di 18 mesi dalle elezioni politiche. Ma tant’è.