Nella sua consueta messa domenicale, l’economista-filosofo Eugenio Scalfari si lancia nell’ennesima enciclica su come rilanciare l’economia e la competitività italiane. E lo fa da par suo, con l’abituale iattanza e disonestà intellettuale che lo caratterizzano, unite ad alcuni buchi di memoria che non sapremmo se ricondurre a malizia o agli effetti del tempo che passa. Vediamo in dettaglio lo Scalfari-pensiero: il declino della competitività del paese è iniziato da almeno dieci anni, cioè più o meno dall’avvio della manovra di convergenza all’Euro attuata dai governi Amato, Ciampi e Prodi, con il fortissimo inasprimento della tassazione, ordinaria e straordinaria, e il sistematico rinvio di spesa per investimenti pubblici ed infrastrutture, unito al blocco del “tiraggio di tesoreria” imposto agli enti locali ed alla pubblica amministrazione. Ma, secondo Scalfari, è dal 2002 (casualmente, primo anno di governo completo da parte dell’attuale maggioranza) che esso ha assunto i connotati di una rovinosa caduta del paese verso la deindustrializzazione. Secondo il Nostro, il governo avrebbe sconsideratamente privilegiato gli sgravi fiscali a vantaggio dei redditi medio-alti, a scapito di consumi ed investimenti. Sul congelamento ormai ultradecennale degli investimenti pubblici abbiamo già detto. Sulla fiscalità, esistono sufficienti evidenze che gli sgravi fiscali sui redditi medio-alti esercitano uno stimolo sui consumi maggiore rispetto ad interventi di uguale natura applicati ai redditi più bassi. Inoltre, aggiungiamo che questo governo ha introdotto e ampliato il concetto e la platea di beneficiari della no-tax area, mentre nella precedente legislatura i tre premier di sinistra, succedutisi a suon di colpi di palazzo, strutturalmente agevolati da un assetto istituzionale che impediva la “dittatura del premier”, avevano ridotto la fiscalità quasi esclusivamente sugli scaglioni d’imposta più elevati, cosa che si tende troppo spesso a dimenticare. Inoltre, il governo rossoverde di Gerhard Schroeder, che pensiamo rappresenti per Scalfari ed i suoi amici progressisti un pericoloso darwinista sociale neo-reaganiano, ha da quest’anno ridotto tutta la struttura delle aliquote dell’imposta sul reddito, ed in modo evidentemente asimmetrico. L’aliquota massima passa infatti dal 45 al 42 per cento, la minima dal 16 al 15 per cento. Scalfari, e con lui tutti i principali grilli parlanti del centrosinistra, lamenta poi che il governo non abbia fatto nulla per rilanciare i consumi, ma dimentica che fu proprio lui, tra gli altri, a definire controproducente il rilancio della domanda privata, e a definire prioritari gli sgravi fiscali per le imprese, evidentemente sulla base dell’assioma che rispetto a quello che fa Berlusconi occorre sempre porsi in antitesi visto che quando il premier, costretto dai propri recalcitranti alleati, decise inizialmente di privilegiare gli sgravi Irap su quelli Irpef, arrivò puntuale l’accusa di disinteressarsi dei consumi delle famiglie e di privilegiare “i padroni”, per usare l’inedito termine ancora ieri pronunciato dal prestigioso leader dei comunisti italiani, Diliberto. Ma Scalfari non vuole esporsi all’accusa di utilizzare solo la pars destruens, e così eccolo puntuale e implacabile ad enumerare il programma di politica economica dell’imminente (??) governo dell’Unione. Tra i cui punti qualificanti si segnala la riduzione del costo del lavoro, con lo spostamento a carico della fiscalità generale della contribuzione generale e sanitaria che attualmente grava su lavoratori ed imprese e soprattutto (udite udite) l’abolizione totale dell’Irap. Scalfari non è nuovo a discettare su cose con cui ha scarsa dimestichezza, ma soprattutto ripete da almeno un paio di decenni il mantra dello “spostamento a fiscalità generale degli oneri sociali”, dimenticando che ciò determinerebbe un formidabile aumento della pressione fiscale, che riporterebbe il paese indietro sulla strada del recupero dell’agognata competitività. Inoltre, ça va sans dire, Scalfari si guarda bene dal suggerire le misure di taglio compensativo della spesa necessarie per mantenere invariata la pressione fiscale in questa eventualità, perché la demagogia trova da sempre nel fisco il proprio terreno d’elezione. Un po’ come il capopopolo Prodi, che dopo aver berciato per mesi sulla irrealizzabilità tecnica degli sgravi fiscali, ha presentato la propria controproposta, basata su misure di tipo sudamericano di aumento retroattivo di tassazione sui fondi rientrati nel paese in applicazione dello scudo fiscale.
Sempre a beneficio della difettosa memoria di Scalfari, segnaliamo che l’Irap, che rappresenta la seconda corda alla quale il paese si è impiccato (essendo la prima il Patto di Stabilità), è stata introdotta nel 1997 dal governo Prodi, ministro dell’Economia Vincenzo Visco, e questo dettaglio non sarà mai ripetuto abbastanza, perché in tal modo i demagoghi della sinistra verranno messi definitivamente a tacere. Riguardo il decreto legge ed il disegno di legge sulla competitività, siamo d’accordo che le risorse mobilizzate sono davvero poche, ma se la sinistra volesse suggerirne un incremento, auspicabilmente non basato sull’abolizione della proprietà privata, ne saremmo oltremodo lieti.
P.S. Siamo d’accordo con l’editoriale del professor Giavazzi (lui sì un vero accademico, non un mestatore errabondo tra oratori e case del popolo…) sul Corriere di ieri. La riforma degli ordini professionali, la cui medievale conformazione sta asfissiando il paese, si risolverà in una farsa, anche perché non abbiamo ancora sentito strepiti dai diretti interessati. Nessuna novità di rilievo neppure riguardo le utilities, dove le lobby impazzano ed imperano, e ci regalano, tra l’altro, il maggior costo dell’energia elettrica in Europa. Un vero programma liberale e liberista non può prescindere da interventi di questo tipo, che difficilmente questo governo realizzerà. Certo, nulla di simile si è visto nemmeno ai tempi della merchant bank di Palazzo Chigi, quella in cui si regalavano i telefoni ad intrepidi imprenditori della razza padana, indebitati fino al collo, anche con banche pubbliche controllate politicamente dal principale partito di governo nella scorsa legislatura. Il vero problema di questo paese è rappresentato dalla specializzazione in settori a basso valore aggiunto, esposti alla concorrenza globalizzata, ed all’insufficiente dimensione media delle imprese, che impedisce strutturalmente di fare una ricerca degna di tale nome. Ridurre il costo del lavoro servirà (forse) a mantenere a malapena le posizioni, ma cambiare il modello economico di un paese assediato dalle lobby e dall’insipienza della propria classe dirigente sarà un’impresa titanica, anche per l'”etico” professor Prodi e la sua armata di no-global e demagoghi d’ordinanza.