Retoriche

Dopo anni di paziente ed infruttuosa attesa, il G7 rompe gli indugi e manda un duro avvertimento alla Cina: rivalutare lo yuan o subire le conseguenze dell’inazione, che saranno inevitabilmente rappresentate da misure protezionistiche come quelle che il Senato americano sta studiando: una tariffa del 28 per cento sull’import cinese. Il cambio dello yuan, da anni fisso a 8.3 contro dollaro, appare ormai insostenibile alla luce dei fondamentali macroeconomici dell’economia cinese, che cresce del 9.5 per cento reale annuo, e gestisce enormi surplus commerciali causati anche dal peg sul dollaro. Il ministro delle finanze canadese ha affermato che i cinesi dovrebbero rendersi conto che “sta arrivando un treno merci”, riferendosi alle crescenti pressioni per reintrodurre dazi e quote all’import cinese. Il governo di Pechino prosegue tetragono nella difesa dello status quo, non ritenendo maturi i tempi per una rivalutazione. Resta il problema, molto grave, della possibile messa in discussione degli accordi che hanno portato la Cina nella WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ingresso che all’epoca venne visto come un tentativo d’imbrigliare la potenza economica cinese e di ridurre i danni causati, tra l’altro, dalla diffusa contraffazione dei marchi attuata dai cinesi, una piaga troppo spesso sottovalutata dagli analisti dell’economia internazionale e dalle sacerdotesse no-global alla Naomi Klein, per le quali esistono solo multinazionali statunitensi che forniscono la prova dell’operare del Maligno nelle terrene vicende. Per molti aspetti, il tentativo di addomesticare il dragone cinese attraverso l’ingresso nella WTO sarebbe riuscito se il cambio dello yuan fosse stato lasciato libero di riflettere, anche solo in parte, i fondamentali macroeconomici. Invece, il peg nei confronti del dollaro, sommato al vantaggio competitivo del costo del lavoro, ha finito con l’introdurre elementi di fortissimo attrito e squilibrio nell’economia mondiale, la cui correzione si annuncia tutt’altro che indolore. La nostra posizione favorevole al libero scambio e alla globalizzazione si basa proprio sulla difesa dei meccanismi del mercato. I cinesi non dovrebbero invocare il libero scambio solo in funzione della propria convenienza, e difendere una parità fissa del cambio in queste condizioni, di pesantissimi squilibri globali, significa solo arrivare ad un devastante redde rationem per l’economia mondiale ed europea (di cui verosimilmente la sinistra italiana incolperebbe Berlusconi).
Riguardo la Cina, le manifestazioni anti-nipponiche di questi giorni, con assalti a consolati ed imprese giapponesi in Cina, sono tollerate e probabilmente incentivate dal regime, che tenta in questo modo di solleticare il nazionalismo, soprattutto dei giovani, per porre in secondo piano le fortissime tensioni sociali provocate da una crescita economica tumultuosa: inurbazione selvaggia, impoverimento delle campagne, disoccupazione crescente nelle grandi imprese pubbliche. E’ probabile che il sentimento anti-giapponese di Pechino serva per esprimere un veto non formale alla candidatura giapponese ad un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il casus belli delle proteste cinesi è stata la pubblicazione di un testo di storia che minimizza le brutalità compiute dalle truppe giapponesi in Cina, ma non bisognerebbe dimenticare che in Giappone esiste un dibattito anche molto aspro tra revisionisti e nazionalisti, e che i libri di testo sostengono tesi anche diametralmente opposte, secondo il principio della libertà d’insegnamento, che non impone l’adozione di un testo piuttosto che di un altro. Insomma, non esiste “verità di stato”. Ben diverso è il caso dei libri di testo cinesi, come ricorda un editoriale di Fred Hiatt sul Washington Post: la storia può cambiare, ma solo se e quando lo decide il Partito Comunista Cinese: ricordate Orwell e 1984, quando libri e giornali venivano riscritti ed archiviati in funzione del mutare di alleanze? Su alcuni libri di testo giapponesi il massacro di Nanchino del 1937 è effettivamente taciuto o derubricato a “incidente”, ma sull’unica versione ammessa dei libri di storia cinesi, i bambini non apprendono dell’invasione del Tibet ad opera del proprio paese (1950), né dell’aggressione cinese al Vietnam (1979) mentre, riguardo i fatti di Tienanmen del 1989, un libro di storia pubblicato nel 1998 afferma che “il Comitato Centrale ha agito tempestivamente, riportando la calma”. Nessuna traccia, poi, dei 30 milioni di cinesi che morirono letteralmente di fame a causa del “Grande Balzo in avanti” di Mao, tra il 1958 ed il 1962. Per i libri di storia cinesi, tutto ciò non è proprio accaduto. Il Giappone ha perso la Seconda Guerra Mondiale per mano della guerriglia comunista cinese, nessun accenno a Pearl Harbour, Iwo Jima e le Midway. E’ vero, come sostiene Pechino, che “ogni paese deve fare i conti con la storia”. Ma ciò di solito è più probabile avvenga in contesti dove un dibattito storiografico è possibile, non certo in contesti di partito unico, o in altri, come l’Italia, che potremmo definire di “pensiero unico”, dominati da un’egemonia culturale che tutto avvolge in una pesante cappa di conformismo e guerra civile ideologica che sembra non aver mai termine. Il 25 aprile ci attende…

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