Scene da un declino

La Banca Popolare di Lodi è stata nei giorni scorsi autorizzata dalla Banca d’Italia a salire fino al 33 per cento del capitale azionario di Banca Antonveneta, di cui attualmente possiede il 27 per cento, dopo un rastrellamento estremamemente oneroso. La Popolare di Lodi punta al 29,9% e probabilmente potrà contare sul supporto di Unipol (2%), del finanziere Emilio Gnutti (2%) e dell’immobiliarista Stefano Ricucci (4,9%), che però ha presentato una lista di consiglieri autonoma. Abn ha presentato la scorsa settimana un esposto alla Consob per denunciare un’azione di concerto tra la Lodi e i suoi alleati.

Nel frattempo, la Banca d’Italia non ha ancora autorizzato gli olandesi di Abn Amro a salire al 33 per cento, né ha comunicato ai medesimi la propria posizione relativa all’Opa sul 100 per cento di Antonveneta, al prezzo cash di 25 euro per azione.

Ieri, l’agenzia internazionale Moody’s, che valuta il merito di credito, ha confermato il rating per la Popolare di Lodi, sottolineando tuttavia che l’aumento della quota in Antonveneta espone Bpl a «rilevanti rischi di mercato potenziali» nonchè a un indebolimento del «capitale economico e di vigilanza».
Certo è, conclude Moody’s, che l’aumento della partecipazione in Antonveneta ha portato a un «deterioramento del profilo di rischio di Banca Popolare di Lodi». Questo deterioramento, comunque, non comporta almeno per il momento una revisione del rating.

La sintesi è la seguente: la Banca d’Italia, utilizzando in modo sempre più spregiudicato le proprie prerogative di antitrust sul sistema bancario italiano, sta spingendo la Banca Popolare di Lodi di Gian Piero Fiorani (un inequivocabile Fazio-boy) a svenarsi finanziariamente per un’acquisizione che non ha alcun senso, sul piano della logica industriale.

Non paga di ciò, la Banca d’Italia sta ormai agendo come una merchant bank, che esamina dossier in via del tutto riservata e prende posizione a favore dei propri “clienti”, cioè della conservazione del proprio sistema di potere, una logica che nulla ha a che spartire con la tutela del risparmio e dei consumatori-fruitori di servizi bancari. Facendo ciò, sta peraltro violando in modo eclatante il proprio mandato istituzionale, che è quello di vigilare per assicurare la stabilità del sistema bancario italiano. Difficile sostenere che la Popolare Lodi non stia pericolosamente indebolendosi per compiere questa scalata, quando il proprio capital ratio, cioè il coefficiente che serve a valutare flessibilità finanziaria e solidità patrimoniale di una banca, è crollato dal 6.4 per cento alla fine del 2004 a poco sopra il 2.3 per cento nell’ipotesi di raggiungimento del 30 per cento.

Riguardo poi la nuova tendenza dei gruppi di potere di questo paese, cioè il richiamo “nazionalistico-patriottico” al tricolore, per mascherare la propria insipienza gestionale e incapacità genetica ad aprirsi alla competizione, facendo pagare i costi della propria incapacità ai cittadini consumatori, riportiamo ampi stralci dell’analisi di Tito Boeri e Roberto Perotti, pubblicata sul sito lavoce.info, sui costi della mancata concorrenza nel sistema bancario:

Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ha sottolineato come la quota straniera nelle prime quattro banche italiane, pari al 16 percento, sia la più alta d’ Europa. Ma il punto rilevante per valutare l’ effetto sulla concorrenza non è la quota di partecipazione straniera, bensì la contendibilità. Deve essere realisticamente concepibile per una banca straniera acquisire un pacchetto di maggioranza di una importante banca italiana. Oggi questo non sembra essere il caso. La distinzione tra quota complessiva e pacchetto di controllo di singole banche è importante. Il settore bancario ha fatto molti progressi nell’ultimo decennio, ma permangono notevoli sacche di inefficienza e comportamenti non competitivi. L’ entrata di soggetti stranieri con quote di controllo contribuirebbe a introdurre più concorrenza, forme alternative di cultura aziendale, nuove tecnologie e servizi. Come in tutte le situazioni in cui la concorrenza è limitata artificialmente, alla fine chi paga è il consumatore, in termini di prezzo, qualità e varietà dei servizi bancari offerti al consumatore.

Quanto costa la mancata concorrenza ai consumatori?

Una ricerca di Capgemini ha calcolato il prezzo nel 2003 di una serie di “core banking services” (assegni e pagamenti, gestione del conto, anticipi e scoperti, e gestione degli errori) su un campione di 73 banche in 11 paesi (Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia). I risultati (…) il prezzo medio di questi servizi nelle 6 banche italiane nel campione (le 6 maggiori banche italiane per attivi) è il più alto: € 206, contro una media nei paesi del campione di € 109. Il costo dei conti bancari, aggiustato nel 2004 per tenere conto della composizione tipica dei servizi bancari utilizzati dal consumatore medio in ogni paese, è ancora in Italia tra i più alti d’Europa, anche se con differenze meno marcate rispetto alla precedente ricerca.
Come riportato dal Sole 24 Ore di lunedì 21 febbraio, una ricerca di Mercer Oliver Wyman per l’ABI su 7 paesi (Italia, Spagna, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Regno Unito) è giunta ad una conclusione simile, pur qualificata in alcune direzioni. La ricerca tiene conto del prezzo effettivo pagato dai consumatori, che spesso si discosta da quello di listino, e dell’ uso di “pacchetti” che includono operazioni e servizi gratuiti; pur con questi aggiustamenti, il costo medio in Italia di un conto di deposito è di € 133, contro una media dei 7 paesi di 73. Anche escludendo il Belgio, l’Olanda e il Regno Unito, dove il modello di business è completamente diverso, l’ Italia ha un costo medio più alto che negli altri paesi.

I più alti costi al consumatore dei servizi bancari di base possono, almeno in linea di principio, essere compensati da uno spread minore tra tassi attivi e tassi passivi, cioè da una remunerazione più alta dei depositi per un dato tasso attivo. In effetti si nota una relazione inversa tra spreads e costi dei servizi bancari in tutti i paesi. Ma non in Italia. Sempre secondo la ricerca Capgemini, dopo la Germania nel 2003 avevamo infatti lo spread più alto di tutti i paesi del campione, 4,5 punti percentuali.

Quindi che fare?

Il sistema bancario italiano ha indubbiamente compiuto notevoli progressi negli ultimi anni, grazie anche alle direttive dell’Unione Europea che ci hanno imposto di liberalizzare gli sportelli, portando ad un loro forte incremento. Ma un confronto internazionale sui livelli dei costi dei servizi offerti ci dice che rimane ancora molto cammino da compiere. In questo quadro, chiudere le porte alla concorrenza estera può essere pericoloso.E a chi affidare la tutela della concorrenza bancaria? Da un lato, Bankitalia ha dato chiari segnali sulla propria posizione riguardo all’apertura del nostro sistema bancario a banche estere. Dall’ altro, alcune recenti nomine all’Antitrust fanno temere che questo istituto potrebbe non avere l’ autorevolezza e le competenze necessarie per occuparsi di un settore così cruciale. In assenza di questi problemi – che speriamo siano transitori – la scelta ricadrebbe a favore dell’Antitrust.

Un governo autenticamente liberale dovrebbe operare avendo bene in mente l’obiettivo prioritario della tutela del mercato, cioè del consumatore. Nulla di ciò è stato finora fatto dal governo Berlusconi, che ha anzi approfittato del disegno di legge di tutela del risparmio, dopo una gestazione tormentata e assai “opaca”, per ribadire il principio del mandato a vita del governatore, dimostrando evidentemente di prediligere i poteri forti al proprio declamato credo liberista.

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