Miti e leggende

Dall’interessante sito di Johan Norberg, scrittore liberale e libertario svedese, un contributo al debunking del principale mito dell’economia svedese: il ridotto tasso di disoccupazione.
Ad oggi i senza lavoro svedesi, secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica, sarebbero il 5.4 per cento della popolazione attiva. Un tasso “anglosassone”, ottenuto tuttavia (secondo la vulgata comune) senza smantellare la generosa sovrastruttura welfaristica svedese. Ma le cose stanno proprio così?

Norberg fa due conti: 254.000 disoccupati ufficiali, a cui vanno tuttavia aggiunti quanti stanno cercando lavoro pur avendo ancora lo status di studente. Questo per motivi di omogeneità con la metodologia prevalente utilizzata negli altri paesi, ed in linea con le raccomandazioni dell’International Labour Organization (ILO). Rettificando per questo fattore, si aggiungono altre 87.000 persone alle liste dei disoccupati.

Vi sono poi altre 121.000 persone, impiegate in “progetti speciali” finanziati dalla fiscalità generale, che in molti altri paesi vengono inclusi tra i disoccupati anche se, più correttamente, occorrerebbe verificare la durata di tali progetti speciali, che spesso servono ad occultare la disoccupazione di lungo periodo. La tendenza all’aumento degli enrollment nei programmi pubblici di formazione permanente è poi rafforzata dalla imminenza delle elezioni politiche, che si terranno a settembre del prossimo anno.

La somma di questi tre dati determina un totale di 471.000 disoccupati su una forza-lavoro totale di 4.579.000 persone, incrementata per tenere conto degli 87.000 studenti-aspiranti lavoratori. Il tasso di disoccupazione sale quindi al 10.3 per cento, un dato vicino a quelli francese e tedesco. Riguardo quest’ultimo caso, è opportuno ricordare che le ultime riforme del governo Schroeder sono state mirate a fare emergere tutti i casi di disoccupazione occultata dietro espedienti welfaristici. Un’operazione-verità con cui, prima o poi, il mito della “piena occupazione” svedese dovrà misurarsi.

Un altro feticcio ideologico della sinistra, quello della necessità di avere una curva delle aliquote d’imposta molto ripida, quale unica garanzia per la progressività del prelievo, è oggi sotto attacco. Alcune settimane fa, l’Internal Revenue Service (IRS) statunitense ha pubblicato le statistiche sul gettito fiscale dell’anno 2003. Da esse risulta che l’1 per cento dei contribuenti più ricchi, in termini di reddito lordo, ha pagato in quell’anno il 34.3 per cento di tutte le imposte federali sul reddito. Il 5 per cento più ricco ha pagato il 54.4 per cento, ed il primo decile ha versato all’erario il 65.8 per cento del gettito complessivo. Ma ancor più interessante è l’evoluzione di tali dati nel corso del tempo. Nel 1980, prima dell’era Reagan, l’aliquota marginale massima era al 70 per cento, ma il primo percentile di contribuenti versava al fisco solo il 19.3 per cento. Dopo il primo taglio fiscale di Reagan, nel 1981, questa percentuale iniziò a salire costantemente, toccando nel 1986 (anno in cui l’aliquota marginale massima fu ridotta al 28 per cento) il 25.7 per cento. Da allora, l’ascesa è stata costante. La tradizionale obiezione progressista sostiene che tali dati non includono i contributi sociali, il cui gettito è largamente contribuito dai meno ricchi, essendo il prelievo effettuato solo su redditi fino a 90.000 dollari annui. Uno studio del 2004 di due economisti dell’IRS ha analizzato la distribuzione per percentili del totale di imposte sul reddito e contributi sociali, e il risultato sembra confermare la correlazione: nel 1999, il primo percentile di contribuenti pagava il 23.3 per cento del totale fiscale-contributivo, il primo decile era al 52.2 per cento, il primo quintile al 68.2 per cento. Analogamente, anche altri paesi sembrano seguire la stessa tendenza. Nel Regno Unito, Margaret Thatcher ridusse nel 1979 l’aliquota marginale massima dall’83 al 60 per cento, ed entro il 1987 il primo percentile di contribuenti passò dall’11 al 14 per cento del gettito totale. In quell’anno l’aliquota massima venne ulteriormente abbattuta al 40 per cento (dove è attualmente), ed il gettito del primo percentile di contribuenti è cresciuto sino al 21 per cento di oggi. Tendenze analoghe sono in atto anche in Canada ed Australia, pur con specificità legate alla diversa ripartizione del prelievo fiscale complessivo, tra il livello federale e quello statale. Con queste premesse, ci si potrebbe domandare se, per la sinistra, conti maggiormente difendere il totem di aliquote marginali talmente elevate da essere solo simbolicamente punitive dei più ricchi, o se non sia preferibile “appiattire” la curva delle aliquote, stimolare la crescita economica ed accrescere il gettito complessivo, generando risorse per la collettività. Ad oggi, questa resta una domanda retorica.

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