L’inchiesta di copertina di questa settimana de l’Espresso è dedicata alle gravi difficoltà in cui si trovano le ferrovie italiane. Problemi relativi alla riduzione del numero di carrozze, alla estemporanea soppressione di convogli, ai persistenti disservizi legati a quella che appare una caduta libera degli standard qualitativi. A ciò si deve aggiungere la ricomparsa di un profondo rosso di bilancio e di serie tensioni di cassa, legate anche all’ambizioso programma di investimenti in ammodernamento e sicurezza. La costante riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato, unita al blocco delle tariffe, voluto nel 2001 da Tremonti, stanno rivelandosi una miscela esplosiva per le ferrovie, che non rischiano una crisi di liquidità simile a quella di Alitalia, ma che stanno tornando a pesare sulle tasche dei contribuenti in modo inaccettabile. E qui sorge l’equivoco: i pendolari si lamentano per la pessima qualità del servizio, le Regioni minacciano di disdettare gli accordi in base ai quali esse corrispondono un contributo chilometrico per sussidiare le tratte locali, eppure le tariffe restano bloccate, per garantire quella malintesa socialità che serve solo a scavare voragini nei conti pubblici, senza migliorare il welfare della popolazione.
Se soltanto i biglietti fossero cresciuti di pari passo col tasso di inflazione, si sarebbero accumulati dal 2001 a oggi dai 300 ai 400 milioni di ricavi in più, che avrebbero spinto i conti a un soffio dal pareggio. Questo è stato l’errore da vecchia politica “annonaria” compiuto da Tremonti e dal governo.
La tendenza da anni in atto in Europa prevede il progressivo aumento della quota di fatturato delle aziende ferroviarie coperta dal prezzo di biglietti e abbonamenti, anche a causa della progressiva riduzione dei trasferimenti pubblici, per esigenze di bilancio pubblico e per non incappare nella contestazione di aiuto di stato da parte di Bruxelles. L’opposizione, tanto per cambiare, trova facile gioco nel cavalcare la contestazione, chiedendo contemporaneamente equilibrio reddituale e mantenimento dei livelli occupazionali nelle ferrovie, tariffe “popolari” ed investimenti di ammodernamento in sicurezza. E’ la vecchia ricetta programmatica del “vogliamo tutto e subito” che sta conoscendo una nuova primavera presso gli strateghi elettorali unionisti. Anche il governo ha attivamente contribuito a questo sonno della ragione economica, con vecchi espedienti dirigisti quali il blocco delle tariffe, destinato a pesare sui conti pubblici, ed a poco valgono i giochetti contabili delle tre carte per spostare questi passivi fuori dal perimetro di consolidamento del deficit della pubblica amministrazione avendo ormai, Eurostat e la Commissione Europea, terminato con ottimo profitto un corso accelerato di window dressing all’italiana. Che fare, diceva Lenin? Semplice: aumentare la compartecipazione degli utenti al costo del servizio, attraverso un adeguamento progressivo delle tariffe, magari vincolato ad un contratto di programma e di servizio con le regioni e lo stato che leghi l’incremento tariffario ai recuperi di produttività ed a standard predefiniti d’investimento. Anche perché, come segnala l’Espresso, dai confronti internazionali i biglietti del treno italiano appaiono straordinariamente a buon mercato, la metà di quelli tedeschi e francesi.
Solo così sarà possibile riequilibrare i conti di Trenitalia e RFI, porre le basi per un miglioramento di efficienza e qualità del servizio e gravare il meno possibile sulla collettività, attraverso il deficit pubblico. Una simile manovra servirebbe anche per uscire dall’età infantile che pretende di dare tutto a tutti. Emblematica la scoperta dell’acqua calda da parte dell’Espresso, di solito sempre in prima fila nell’attribuire a Berlusconi le peggiori nequizie del creato:
(Il servizio)… spesso è svolto con costi molto più alti per Fs, in quanto si tengono in piedi tratte con pochi treni e ancor meno passeggeri. C’è chi stima che un privato taglierebbe il 30 per cento del servizio, perché antieconomico: perché allora non iniziare una bella operazione trasparenza sui rami secchi?
Appunto, perchè non iniziare da lì? La domanda, amici dell’Espresso, dovete girarla ai vostri referenti politici: al primo taglio di rami secchi vedremmo in piazza Agnoletto, madri con prole, parroci no-global e l’abituale variopinta corte dei miracoli che farebbe scolpire solennemente a Bertinotti che “una nuova coscienza civile e sociale si è ormai formata nel paese”. Come da copione, potremmo poi attenderci l’inserimento in scia di Alemanno & termiti associate del centrodestra, che verosimilmente chiederebbero di “tassare le rendite finanziarie” per mantenere in essere le tratte antieconomiche, oltre che per aumentare le pensioni, combattere la fame nel mondo e lottare contro la calvizie. Sfortunatamente, la tardiva ed incompleta metamorfosi di Berlusconi, da ottimista compulsivo a realista pragmatico ma non troppo, non aiuta a fare al paese discorsi adulti. Quei discorsi che permettono di comprendere e riconoscere che, come scriveva l’economista italiano Maffeo Pantaleoni, non c’è nulla di più vendicativo dell’economia.