Secondo un recente studio di KPMG, Stati Uniti e Giappone hanno le due più elevate aliquote d’imposta sulle società, tra le oltre 80 nazioni esaminate. Le aliquote dei due paesi sono pari a circa il 40 per cento, incluse le tasse aziendali a livello statale e locale, mentre (udite, udite) l’aliquota media europea è pari a circa il 25 per cento. Dietro questo dato eclatante si nasconde la crescente competizione fiscale entro l’Unione Europea, causata dall’ingresso dei paesi dell’ex blocco orientale, quasi tutti caratterizzati da una struttura delle aliquote molto piatta. Esiste tuttavia una tendenza ormai consolidata alla riduzione dello statutory rate (l’aliquota nominale), in parallelo all’affermarsi della globalizzazione dei flussi finanziari ed in risposta agli incentivi alla mobilità dei capitali, esplicitamente introdotti dalla normativa comunitaria.
Lo studio di KPMG segnala, per il nostro paese, un’aliquota Ires al 33 per cento, a cui si aggiunge l’Irap, pari al 4.25 per cento, ma con possibilità di scostamenti nei due sensi (fino ad un massimo dell’1 per cento) decisi discrezionalmente dalle regioni. Di rilievo la segnalazione della non deducibilità fiscale di alcune spese, che di fatto tende ad ampliare la base imponibile. Questo è uno dei motivi della insufficienza dell’aliquota fiscale nominale quale elemento di valutazione della pressione fiscale complessiva.
Riguardo la tassazione delle imprese, è utile ricordare l’importanza del concetto di incidenza fiscale, cioè dell’individuazione dei soggetti che effettivamente sopportano l’onere della tassazione. La tassazione delle imprese tende ad essere molto popolare tra gli elettori, di destra e di sinistra. Nei fatti, ed a parità di ogni altra condizione, le aziende sono più un collettore d’imposta che un contribuente. Il peso della tassazione aziendale finisce col ricadere sulle persone fisiche, siano essi azionisti, clienti o lavoratori.
Ipotizzate che il governo decida di aumentare la tassazione sul reddito delle aziende che producono auto. A prima vista, e nel breve periodo, l’onere dovrebbe ricadere sugli azionisti, sotto forma di minori profitti. Ma, col trascorrere del tempo, ciò innesca un effetto-incentivo, cioè una risposta degli azionisti alla minore profittabilità dopo le imposte. Che si traduce in una riduzione degli investimenti nel settore maggiormente tassato (perché gli investimenti vengono scelti in base alla loro profittabilità dopo le imposte) e nella diversa destinazione della ricchezza degli azionisti, ad esempio in altre industrie e/o paesi. Con meno auto prodotte nel paese, per riprendere il nostro esempio, si riduce anche la domanda di lavoratori del settore. Così, da una tassa sui costruttori di auto, si giunge all’esito di un aumento del costo delle auto (ceteris paribus, per minore offerta) ed una riduzione del numero di lavoratori. La tassazione del reddito delle società è piuttosto popolare in parte perché sembra essere pagata delle “ricche” aziende. Ma chi sopporta effettivamente l’onere della maggiore tassazione spesso è tutt’altro che ricco, come nel caso di consumatori e lavoratori. Per questo se vi fosse maggiore consapevolezza della reale incidenza della tassazione aziendale, cioè di chi ne sopporta effettivamente l’onere, questo tipo di fiscalità risulterebbe assai meno popolare presso gli elettori.