In un articolo comparso oggi sul Financial Times Martin Feldstein, direttore del National Bureau of Economics Research (l’organizzazione privata e no-profit che si occupa di datare inizio e termine delle fasi recessive statunitensi), conferma e rinforza quanto da noi segnalato giorni addietro: non solo è prematuro affermare che gli Stati Uniti si sono lasciati la recessione alle spalle, ma esistono addirittura elementi per ritenere che la fase recessiva sarà ben più profonda e protratta di quanto si immagina ed auspica. Feldstein prende le mosse dalla prima stima del pil statunitense nel primo trimestre 2008.
L’incremento delo 0,6 per cento annualizzato implica che l’attività economica stava crescendo in gennaio, febbraio e marzo. In realtà, spesso si tende a dimenticare che il pil trimestrale è la media del livello rispetto al trimestre precedente. I dati macro di cui esiste disponibilità mensile mostrano un quadro meno rassicurante: ad esempio che i nuovi impieghi del settore privato hanno toccato il picco lo scorso novembre e sono diminuiti da allora per cinque mesi consecutivi, eliminando oltre 300.000 impieghi; o che il livello della produzione industriale in marzo era inferiore a quello di dicembre e gennaio; o ancora che il reddito personale reale, al netto di tasse e trasferimenti, è anch’esso inferiore al dato di gennaio. E così per molte altre serie storiche macroeconomiche.
Poiché il governo non fornisce una stima mensile della variazione del pil, Feldstein ricorre ai dati di Macroeconomic Advisers, una società privata di previsioni economiche che realizza stime mensili del pil con metodologie concettualmente identiche a quelle governative. L’ultimo dato mensile stimato da Macroeconomic Advisers mostra che il pil si è contratto in marzo su gennaio, malgrado la media dei primi tre mesi del 2008 si confermi effettivamente superiore a quella dell’ultimo trimestre 2007. Quindi, è sufficiente utilizzare dati puntuali e non medie per ottenere un quadro non precisamente roseo della congiuntura statunitense. Il dato puntuale presenta, ovviamente, un maggior rischio di “rumore” di fondo rispetto alla media, ma nel caso specifico non dovrebbe essere dimenticato che pressoché tutti gli indicatori macro volgono al peggio: difficile immaginare un rumore statistico contemporaneo a tutti.
Secondo Feldstein, inoltre, malgrado lo stimolo offerto dalla politica monetaria e dai rimborsi fiscali decisi dall’Amministrazione Bush, il recente forte calo della fiducia dei consumatori suggerisce la prosecuzione di periodi difficili per l’economia. L’area di maggiore criticità resta quella dell’immobiliare residenziale, i cui prezzi sono calati nel 2007 del 12 per cento e nel primo trimestre dell’anno stanno cedendo al passo del 25 per cento. Il fenomeno che rischia di autoalimentare il crollo dell’housing è quello del negative equity: in altri termini, il valore di mercato delle abitazioni diventa inferiore a quello del debito contratto dal mutuatario. Considerando che la legislazione vigente nella maggior parte degli stati stabilisce che i creditori non possono rivalersi sui debitori per importi superiori al valore dell’immobile, ecco che questi ultimi hanno un incentivo materiale a dichiarare il default ed abbandonare l’immobile al processo di pignoramento. Si stima che circa il 15 per cento dei mutui statunitensi presentino caratteristiche di negative equity. Una spirale che rischia di alimentare crolli nella ricchezza delle famiglie e nello stock di capitale delle istituzioni finanziarie, per mezzo della devastazione che il mercato immobiliare subirebbe.
Per questo motivo Feldstein suggerisce una linea d’intervento pubblico che preveda linee di credito agevolato a favore dei debitori che stanno per andare in negative equity. In tal modo i debitori potrebbero rimborsare in misura rilevante il proprio debito, riducendone al contempo il costo medio a livelli sostenibili dal bilancio familiare.
Quella di Feldstein è solo una delle molte proposte mirate a contrastare l’effetto di avvitamento della crisi immobiliare e le sue vaste ramificazioni sull’intera economia. Altre analisi e terapie seguiranno, ma la diagnosi non può essere altra che il riconoscimento delle condizioni recessive in cui si trova oggi l’economia statunitense.