Cina, capitali in uscita?

La scorsa settimana la banca centrale cinese ha comunicato l’entità delle riserve valutarie del paese nel quarto trimestre del 2008. Il dato ha suscitato interrogativi e preoccupazioni, anche e soprattutto in Occidente. Le riserve a fine dicembre ammontavano a 1946 miliardi di dollari, in aumento di 40 miliardi sul terzo trimestre. Se si considera che, nell’ultimo trimestre dell’anno, l’attivo commerciale cinese col resto del mondo è stato di 114 miliardi di dollari, si intuisce che negli ultimi tre mesi del 2008 la Cina ha sofferto un significativo deflusso di capitali, che si ritiene causato essenzialmente da due motivi: il venir meno delle aspettative di rivalutazione dello yuan sul dollaro e, soprattutto, la percezione del rischio intrinseco al sistema finanziario cinese.

La crisi economica è ormai una realtà anche in Cina, con tutto quello che ne consegue in termini di contrazione dei livelli di attività, eccesso di capacità produttiva, aumento delle sofferenze bancarie, crescente rischio di tensioni sociali. Questi fattori tendono ad aumentare il rendimento richiesto dall’investimento nel paese. Specularmente la borghesia imprenditoriale cinese, in presenza di tali rischi, spesso ritiene di dover diversificare le proprie attività finanziarie, ed esporta (più o meno legalmente) capitali dal paese. Nel 2007 ed in gran parte del 2008 le autorità cinesi hanno bloccato il paese in una condizione di trappola pro-ciclica: le attese di rivalutazione dello yuan hanno causato forti afflussi di “denaro caldo”, fondi di matrice speculativa spesso travestiti da transazioni commerciali.

L’impossibilità di procedere ad un’unica, secca rivalutazione “notturna” dello yuan sul dollaro (che avrebbe bloccato gli afflussi di capitale), per non mettere fuori mercato interi settori produttivi basati sull’export ad alti volumi e margini unitari quasi nulli, e l’incapacità di sterilizzare gli afflussi di capitale hanno gonfiato oltre misura l’offerta di moneta ed il credito, contribuendo all’accumulazione di eccesso di capacità produttiva ed alla forte crescita del Pil, che nel 2007 è stata del 13 per cento, secondo l’ultima revisione, pubblicata giorni addietro. Oggi, di fronte alla grave crisi dell’export cinese, le autorità rischiano di trovarsi con il problema opposto: forti deflussi di capitale, e sostanziale “buco” nell’offerta di credito ad imprese e famiglie, proprio nel momento in cui servirebbe tenere aperti i rubinetti.

Che accadrà durante l’aggiustamento ciclico e strutturale dell’economia cinese? Vi sono pochi dubbi circa la capacità delle autorità cinesi di iniettare nella propria economia un impulso fiscale espansivo molto aggressivo. I dubbi sono tuttavia relativi alla qualità dell’espansione, alle modalità del suo finanziamento ed a quanta parte andrà semplicemente sprecata, aumentando i crediti inesigibili delle banche e riducendo la crescita della produttività di lungo periodo. Ma soprattutto, non è chiaro se la Cina riuscirà ad espandersi in modo da compensare la contrazione della domanda proveniente da Europa e Stati Uniti: spesso si tende infatti a dimenticare che queste due economie sono pari a circa sei volte quella cinese. Considerazione che rimarca, se mai ve ne fosse bisogno, la fallacia delle ipotesi di decoupling, lo sganciamento della congiuntura cinese da quella del resto del mondo sviluppato.

Ma quello che appare decisamente più preoccupante, tra i rischi indotti da questa crisi, è la situazione monetaria cinese. Se i deflussi di valuta dovessero accelerare e (come potrebbe accadere) il surplus commerciale e l’investimento diretto estero dovessero cadere, potremmo iniziare a vedere degli ampi deflussi netti mensili di capitale, e non sarebbe sorprendente se ciò aumentasse la percezione del rischio, incoraggiando altre fughe di capitali. E poiché deflussi di valuta significano che la banca centrale cinese vende dollari e compra yuan, ciò rappresenterebbe un contrazione nell’offerta di base monetaria e quindi di credito. Evento sempre recessivo, ma che potrebbe avere conseguenze devastanti durante una recessione, se non opportunamente compensato dalle autorità monetarie.

Queste ultime sembrano essere consapevoli del rischio, e nei mesi scorsi hanno letteralmente ordinato alle banche commerciali di aumentare il credito e rilassare gli standard di erogazione. Gli ultimi dati sembrano dimostrare che il diktat funziona: i prestiti denominati in yuan sono cresciuti a dicembre di un robusto 19 per cento sullo stesso mese dell’anno precedente. Leggendo i dati in controluce, tuttavia, i motivi di ottimismo sembrano ridimensionarsi: gran parte dell’espansione del credito sembra derivare da sconto di effetti cambiari, quindi a livello di sistema bancario lo stesso prestito potrebbe essere contabilizzato più volte. Inoltre, lo spostamento delle imprese verso fidi di breve termine potrebbe suggerire problemi di tesoreria, per il venir meno di flussi di cassa operativi a seguito del crollo dell’attività. Le banche cinesi potrebbero poi semplicemente aver riportato a bilancio i prestiti già erogati in precedenza e attribuiti a veicoli esterni al bilancio. Vi sono poi robuste evidenze aneddotiche di una forte contrazione nel credito erogato dal sistema creditizio informale, quello fatto di prestatori non ufficiali, piccoli e grandi.

Come intuibile, un massiccio deflusso di valuta potrebbe porre fine alla capacità cinese di continuare a finanziare il deficit federale americano, e in caso estremo condurre al decumulo di posizioni in titoli pubblici statunitensi, con tutto quello che ciò implicherebbe per dollaro e tassi in esso denominati. Già oggi si osserva una riduzione della durata media finanziaria del portafoglio di titoli governativi statunitensi detenuto dalla Cina. Le motivazioni non sono immediatamente comprensibili: potrebbe trattarsi del desiderio di mantenersi su attivi liquidi, in caso di esigenze di liquidazione di parte del portafoglio, così come potrebbe trattarsi di crescente sfiducia verso il debitore America, come spesso accade quando si riduce la scadenza media di un portafoglio concentrato. Ma anche senza spingersi allo scenario peggiore, restano i dubbi sulla capacità della banca centrale cinese di controllare gli aggregati monetari entro una cornice di cambio pressoché fisso. Crisi dell’export, credit crunch: dopo lo squilibrio americano, anche quello cinese (ad esso speculare) presenta il conto.

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