Il cosddetto Superindice americano, che tecnicamente si chiama Index of Leading Economic Indicators, elaborato dal Conference Board e che tenta di prevedere l’andamento dell’economia nei successivi sei mesi, ha segnato in dicembre un inopinato rialzo dello 0,3 per cento, a fronte di attese per una flessione dello 0,2 per cento. Prima di entusiasmarci per l’imminente fine della crisi, è utile analizzare la composizione del Superindice, ed i pesi dei suoi dieci componenti. Solo quattro dei quali in dicembre hanno segnato variazioni positive: inclinazione della curva dei rendimenti (aumentata), nuovi ordini di beni di consumo, nuovi ordini di beni capitali non destinati alla difesa e, soprattutto, offerta di moneta reale, cioè depurata dall’inflazione. Ed è in quest’ultimo dato, che ha il maggior peso sull’indice, che si il diavolo si nasconde.
La crescita reale dell’offerta di moneta ha contribuito per circa un punto percentuale all’incremento dell’indice, come avviene con regolarità ormai da settembre. Ma l’eclatante espansione dell’offerta di moneta è figlia delle non meno straordinarie operazioni della Fed, in termini di prestito titoli ed acquisti a fermo. In tempi normali l’espansione di base monetaria (circolante più riserve bancarie) si traduce in aumento dell’offerta di moneta (circolante più depositi) che si trasmette all’economia attraverso il credito bancario. Quest’ultimo meccanismo di trasmissione si è notoriamente inceppato da tempo. Per questo motivo l’espansione dell’offerta di moneta, che ha guidato al rialzo il valore dei leading indicator, ha perso significatività come previsore di futura crescita economica.
Se domani leggerete che l’economia americana sta dando segni di risveglio, siate quindi robustamente scettici.