Chiamiamola Ugo

Due interessanti post, di Lakeside Capital e del nostro socio JCF sull’intervento pubblico nel capitale delle banche. Poco (anzi nulla) da aggiungere alla disamina tecnica di entrambi, assolutamente esaustiva. Solo due precisazioni: noi preferiremmo di gran lunga un “Chapter qualcosa“, nel senso di una procedura “fallimentare” creata su misura per le banche maggiori e sistemiche, che non sia del tutto identica a quella standard che vede coinvolta la FDIC. Oppure ad una amministrazione straordinaria guidata dalla banca centrale, ammesso e non concesso che la Fed possa dirsi sufficientemente isolata ed isolabile dalle lobby di azionisti e management. Perché è da quelle, oltre che dai politici, che occorre proteggere le banche. Anche evitando una nazionalizzazione in modalità “esproprio”, ed usando per contro l’approccio incrementale ed assai costoso della progressiva diluizione degli azionisti (e il debt-to-equity swap per gli obbligazionisti), che stiamo attualmente percorrendo, il problema dell’esercizio di un’influenza determinante da parte del settore pubblico resta ineludibile, e con esso le potenziali distorsioni all’erogazione del credito.

Prendiamo i Tremonti bond: qualcuno li sospetterebbe di essere causa di ingerenza politica nella gestione delle banche? A prima vista pare di no, ma in realtà la distorsione avviene. In primo luogo, i Tremonti bond non sono Tangible common equity, ma “solo” Core Tier 1, quindi la loro utilità è opinabile, in questo contesto di mercato. Quando le maggiori banche italiane dovranno procedere all’impairment degli avviamenti che hanno iscritto a bilancio per effetto di acquisizioni (perché è solo questione di quando, non di se), i Tremonti bond non eviteranno il bagno, e questo lo sanno tutti, mercato, banchieri e governo. Poi, restano dubbi sulle modalità operative delle condizioni di utilizzo: sospendere le rate del mutuo per 12 mesi a chi ha perso il lavoro è molto nobile, ma dovrebbe essere lo stato a pagare la rata alle banche, o a fornire l’equivalente della somma al mutuatario, come misura di welfare. Invece, con questo criterio, le banche rischiano di trovarsi tra un anno con un aumento di partite incagliate e crediti dubbi, e di essere costrette ad accantonamenti per perdite su crediti.

Stesso discorso per il mantenimento di dati livelli di erogazione di credito alle imprese, addirittura supervisionato dalle prefetture, vive la République. Se le banche conoscono i propri clienti non per credit scoring astratti ma per relazione consolidata, i volumi di credito erogato sono sempre per definizione corretti. Spetta eventualmente allo stato intervenire attraverso la fiscalità a sostegno delle imprese, ma solo di quelle che hanno situazioni recuperabili, e gestione caratteristica sostanzialmente sana. E poi, quanto costerà il credito erogato in via differenziale ed aggiuntiva con strumenti di debito che costano alla banca non meno del 7,5 per cento lordo? Non era meglio, per proteggere il cashflow delle imprese e dare volano agli investimenti (nei limiti consentiti da questa congiuntura mortale), varare una nuova Legge Tremonti su ammortamenti accelerati ed anticipati di beni strumentali, o procedere al sistematico rimborso dei crediti Iva pregressi? Troppo costoso e poco spettacolare?

In breve: l’ingerenza della politica non deriva dall’utilizzo della parola nazionalizzazione, ma è nell’ordine delle cose. Fare credito non è attività d’impresa come le altre, è noto da sempre. E’ un settore protetto e potenzialmente soggetto a distorsioni nell’allocazione dei flussi finanziari. Se oggi l’obiettivo deve essere quello di fare emergere la consistenza di asset tossici, è difficile pensare che ciò possa avvenire senza un intervento pubblico dirimente, cioè tale da esprimere il controllo della gestione. Non viviamo in un vacuum, purtroppo.

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