Nel mese di febbraio il deficit della bilancia commerciale statunitense si è fortemente contratto, portandosi a 26 miliardi di dollari dai 36,2 miliardi in gennaio. Il risultato è frutto di un vero e proprio collasso delle importazioni e da un lievissimo aumento dell’export, il primo da luglio 2008, probabilmente frutto di rumore statistico. Il deficit è sceso al minor livello da novembre 1999. Questi numeri potrebbero contribuire ad aumentare il Pil americano del primo trimestre 2009 di 1-2 punti percentuali. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Il collasso delle importazioni del primo trimestre riflette sia la debolezza nella domanda finale statunitense che il crollo dei flussi di commercio estero a seguito della stretta creditizia: negli ultimi tre mesi import ed export sono crollati al passo annualizzato del 38 per cento. Tuttavia, poiché in valore assoluto le importazioni americane sono molto maggiori dell’export, queste flessioni hanno prodotto un forte restringimento del deficit commerciale. Oggi gli Stati Uniti sono impegnati in un’imponente processo di liquidazione delle scorte che sta forse iniziando a dare i primi frutti, come segnalato dai recenti dati sulle scorte all’ingrosso, e dalla riduzione del quoziente tra scorte e vendite. Il decumulo delle scorte si riflette pesantemente anche sulle importazioni: il dato di febbraio mostra forti riduzioni soprattutto nell’import di forniture industriali e beni capitali, al netto delle auto. Ma esiste un rovescio della medaglia: su base annuale le importazioni dal Giappone sono in calo del 50 per cento, una caduta che corrisponde a quella dell’export giapponese. Le importazioni dall’Eurozona e dal bacino del Pacifico sono in calo del 30 per cento, sia pure non corrette per la stagionalità.
Al miglioramento del saldo commerciale americano sta inoltre vistosamente contribuendo il petrolio. In valore nominale, nel primo bimestre 2009 le importazioni petrolifere medie erano pari a 15 miliardi di dollari al mese, 20 in meno dello stesso periodo del 2008 e oltre 30 in meno rispetto al picco dell’estate scorsa. Ma anche in valore reale, cioè in volume, l’import petrolifero è in calo del 6 per cento su base annua. Questo significa che i minori prezzi petroliferi non hanno rivitalizzato la domanda, a causa della gravità della crisi.
Ha quindi ragione Brad Setser: gli americani stanno esportando la propria recessione. Chi pensa che alla fine di questa crisi ci sia il ritorno al business as usual del consumatore compulsivo americano che risolleva l’export di Cina, Giappone e Germania farebbe bene a ricredersi.