Approvato oggi dal Consiglio dei ministri il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria 2010-2014. Il governo ci informa che “intende agire per trasformare l’attuale crisi in un’opportunità di sviluppo e di rilancio per l’economia italiana, e più in generale di progresso sociale per il Paese”. Ci stupiremmo di un’affermazione del contrario. Il documento sposa la tesi dei green shoots, segnalando che “negli ultimi due-tre mesi si sono ripetuti segnali non negativi [sic], per l’economia mondiale e per quella italiana. In varie sedi e forme [?, ndr] si ipotizza la ripresa a partire dal 2010″.
Il Dpef, che prevede per quest’anno una contrazione del Pil del 5,2 per cento (e del 3,1 per cento corretto per il ciclo), quantifica anche la ripresa con un Pil a +0,5 per cento nel 2010 e al +2 per cento per ciascuno degli anni 2011-2013. Come direbbe (ed ha effettivamente detto) il ministro dell’Economia, si tratta di congetture, e pure aderenti a quelle di Bankitalia e dei principali istituti internazionali. E’ l’econometria, bellezza.
Il Governo, riconoscendo che la crisi economica “ha messo sotto pressione l’equilibrio dei conti pubblici”, conferma nel primo capitolo del Dpef “l’impegno” a portare i conti verso il pareggio di bilancio e per una costante riduzione del rapporto debito pil “non appena la ripresa sarà consolidata”. Potrebbe volerci un pochino, a dirla tutta.
L’esecutivo ha quindi deciso di confermare le linee-guida della propria comunicazione strategica: rinviare le riforme al dopo-crisi, e ribadire la posizione di vantaggio relativo del nostro paese. Nel documento si legge infatti che
“L’economia italiana risulta meno esposta ai fattori specifici della crisi finanziaria. (…) L’indebitamento delle famiglie inferiore rispetto all’area dell’euro (60% del reddito disponibile contro il 93% a fine 2008)”
e, soprattutto, riporta i dati del “debito aggregato”, che riunisce il debito cumulato dal settore pubblico e da quello privato per mostrare che l’Italia, che nel 1995 era sopra la media dell’Ue è ora sotto questa soglia.
L’ammontare del “debito aggregato” pubblico-privato dell’Italia si attesta nel 2009 al 221% del Pil, sotto la media dell’Ue che è invece del 246,7% del Pil. Ma – spiega il Dpef – “la posizione relativa dell’Italia rispetto ai paesi europei è significativamente migliorata dal 1995 al 2009. Nel 1995, infatti, il debito aggregato italiano era al 193,4% del Pil contro una media europea del 183,4%. Un confronto sul “debito aggregato” degli altri Paesi mostra che – mentre la Germania si attesta nel 2009 al 200,1% del Pil – Francia, Regno Unito e Spagna hanno una esposizione peggiore dell’Italia (e gli ultimi due anche della media Ue). La Francia nel 2009 aveva un debito aggregato del 229% del Pil, il Regno Unito al 277,5%, la Spagna del 265,3%.
E’ certamente vero che l’Italia ha minore stock di debito delle famiglie, ed è parimenti vero che il nostro paese è entrato in questa crisi con un deficit delle partite correnti molto contenuto, il vero motivo della nostra “salvezza”, e della speculare dannazione di paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Spagna (per non parlare delle economie emergenti dell’Est Europa), ma questa argomentazione governativa “dimentica” il debito pensionistico, il cui valore attuale è oggi stimato intorno al 120-140 per cento del Pil dopo che, durante l’emergenza fiscale di inizio anni Novanta, era stimato dalla Banca d’Italia pari al 300 per cento del Pil. Già oggi l’Italia ha un esborso previdenziale annuale pari a circa il 15 per cento del Pil. Un livello di spesa superiore a quello medio degli altri paesi europei. Per il Regno Unito, che pure sta vivendo una crisi drammatica, tale voce di spesa si situa intorno al 5-6 per cento del Pil.
Includendo il valore attuale del debito pensionistico, il quadro per il nostro paese è assai meno positivo di quanto dipinto dal governo. Per questo serve mettere mano a riforme del welfare che riducano l’incidenza sul Pil della spesa pensionistica, permettendo di liberare risorse utilizzabili per l’inclusione sociale e il supporto al mercato del lavoro. Eliminare le pensioni di anzianità, passare al contributivo pro-rata per tutti, accelerare l’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego sono interventi che possono e debbono essere adottati anche durante l’attuale congiuntura, analogamente ad interventi di liberalizzazione sui mercati dei prodotti e dei servizi. Purtroppo, ad oggi stiamo vedendo solo interventi legislativi tendenti a ripristinare lo status quo ante (nelle libere professioni, ad esempio), o a mantenere condizioni di assenza pressoché assoluta di competizione nella politica dei trasporti. Le professioni di ottimismo sono importanti, quelle di realismo (e soprattutto di riformismo) lo sono assai di più. Una politica dei “due tempi” potrebbe rivelarsi pericolosa.