Tre dubbiozzi sulla Banca del sud /3

di Mario Seminerio – Il Foglio 2+2

In attesa che il ddl sulla Banca del Mezzogiorno compia i primi passi del suo percorso parlamentare, e venga definitivamente piegato a quelle logiche di campanile clientelare denunciate con molta efficacia da un tradizionale difensore della politica economica di Tremonti quale è il professor Francesco Forte, non si può non concordare con le analisi di Queequeg e di Michele Boldrin. Allo stato non c’è nulla che suggerisca che l’aumento della raccolta delle banche meridionali possa tradursi in corrispondente aumento degli impieghi. Senza contare che il sistema di garanzie pubbliche su raccolta e finanziamenti della BdM si tradurrà in uno speculare aumento dello stock di debito pubblico, oltre agli elevati rischi (per usare un eufemismo) di attenuazione della due diligence nelle istruttorie di fido.
L’intero impianto del provvedimento sembra reggersi sull’assunto che le banche localizzate sul territorio dispongano di informazioni qualitativamente migliori sui debitori rispetto alle grandi banche “remote” dal territorio, ma non ci risultano esistere dati che suffraghino questa tesi. Potrebbe benissimo darsi che il maggior costo del credito nel Mezzogiorno derivi dai forti deficit infrastrutturali e dall’insufficiente tutela dei diritti di proprietà che da sempre caratterizza quella parte del paese, e non da insufficiente raccolta, dato anche che le banche meridionali non hanno un rapporto tra prestiti e raccolta particolarmente elevato. In quel caso il sistema sarebbe in equilibrio efficiente, e la Banca del Sud non servirebbe a nulla se non a ridurre il tasso di disoccupazione tra i consiglieri di amministrazione. Tacendo, peraltro, dell’ennesima segmentazione della fiscalità sulle attività finanziarie ed ammettendo che ciò, unitamente al ruolo di Poste Italiane nell’intera operazione, riesca a superare l’esame della Commissione Europea, con la quale sarebbe forse più opportuno negoziare la creazione di una No Tax Area, magari barattandola con gli aiuti comunitari per le aree depresse.

Tentiamo ora di allargare l’orizzonte focalizzandoci sul problema più generale, cioè sul grado di indebitamento del sistema produttivo italiano. In questo paese abbiamo avuto per decenni la mistica del “piccolo è bello”, senza se e senza ma. La legislazione fiscale è costruita per discriminare i mezzi propri a tutto vantaggio del ricorso al debito. Le motivazioni sono note, e riconducibili alla tipologia proprietaria, con le imprese che passano di padre in figlio e la necessità di mantenere il controllo in famiglia che avversa un rafforzamento patrimoniale che spesso equivale all’ingresso in impresa di “estranei”, più che di nuovi soci. Date tali premesse non suscita meraviglia che, nel momento di una crisi sistemica che coinvolge il credito, le piccole e medie imprese si trovino (in media) in condizioni molto problematiche, per usare un eufemismo, nel reperimento di finanziamenti. Ecco perché potrebbe essere utile ragionare in un’ottica di medio periodo, promuovendo la ricapitalizzazione delle PMI.

Per ottenere ciò occorre rivedere la discriminazione del capitale proprio rispetto al debito, insita nella attuale normativa fiscale. Occorre pensare a reintrodurre una disciplina della Dual income tax (Dit), che è già stata in vigore in Italia dal 1996 al 2003. Nell’esperienza italiana la Dit era un sistema di tassazione del reddito d’impresa, introdotto con la riforma Visco del 1996, che tassava con una aliquota ridotta del 19% la quota di reddito imputabile ai finanziamenti con capitale proprio (cioè nuovi apporti di capitale dei soci e utili non distribuiti), definita “remunerazione ordinaria”, calcolata in modo tale da riflettere il costo-opportunità per il socio dell’investire i propri capitali nell’impresa, piuttosto che in titoli obbligazionari od altri impieghi finanziari alternativi. La Dit venne poi eliminata (da Giulio Tremonti) con l’entrata a regime della riforma dell’Irpeg, oggi chiamata Ires (imposta sui redditi delle società), ma il problema della insufficiente capitalizzazione, ergo dell’eccessivo indebitamento delle imprese italiane, è rimasto ed oggi si è aggravato.

E poiché tutto si tiene, sarebbe opportuno riflettere anche sul fatto che l’aumento di capitalizzazione delle imprese ridurrebbe l’onere legato all’Irap, che come noto prevede l’indeducibilità degli interessi passivi nella determinazione del valore aggiunto netto su cui l’imposta è applicata. Perché in Italia funziona così: le emergenze di bilancio pubblico determinano l’esigenza di massimizzare il gettito, senza porsi troppe domande sugli effetti perversi e distorsivi della tassazione. Probabilmente l’idea originaria di Visco era quella di spingere le imprese a ricapitalizzarsi, e l’Irap era vista come incentivo di rinforzo alla Dit. Oggi, alla luce della crisi di credito in cui ci troviamo, riprendere il tema degli incentivi fiscali alla patrimonializzazione delle imprese assume un significato ancor maggiore. Anche perché, ad evidenza, non si tratterebbe di “incentivi” quanto del recupero della neutralità fiscale tra capitale e debito nella scelta dei mezzi di finanziamento dell’impresa, e la distinzione non è di lana caprina.

A noi resta comunque da comprendere il mistero di un premier e di una coalizione che da un decennio promettono a gran voce l’abolizione dell’Irap (sempre rigorosamente quando stanno all’opposizione), senza realizzare alcunché quando giungono al governo del paese. Per quanto tempo l’elettorato del Pdl fatto di piccoli e medi imprenditori si accontenterà di essere pagato in promesse?

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