di Mario Seminerio – Libertiamo
E così, ieri abbiamo appreso che in Finanziaria non ci saranno tagli all’Irpef né all’Irap. Né ci sarà l’introduzione della cedolare secca sugli affitti, neppure nella forma gradualista, cioè limitata ai nuovi contratti. La vulgata mediatica dirà che hanno vinto i “rigoristi” sugli “sviluppisti”, e questa immagine è perfetta per un paese che si ostina a non fare i compiti a casa, preferendo copiare dal compagno di banco. Le cose stanno in termini diversi.
Durante la riunione del nuovo direttorio economico del Pdl, quello che doveva costringere Tremonti alla collegialità, pare che il ministro abbia giocato di contropiede, affermando che il più grande risultato era in realtà da considerare il fatto che non si sarebbero alzate le tasse. Perché la situazione è effettivamente molto grave: la crisi economica continua a mantenere depresso il gettito fiscale, e la sola tendenza spontanea della spesa causa l’ampliamento del deficit.
Questo è un punto da tenere presente. Sinora l’andamento del gettito italiano ha retto, in termini relativi, ma con una anomalia: la contrazione degli incassi fiscali è minore rispetto a quella registrata in altri paesi. Ci sarebbe da rallegrarsi, in realtà c’è da preoccuparsi. In un paese a sistema fiscale progressivo, al calo del reddito (Pil) deve corrispondere una flessione più che proporzionale della pressione fiscale, per esercitare un effetto di stabilizzazione automatica. In Italia ciò avviene meno che altrove. Se da un lato questo rende meno drammatica la situazione dei conti pubblici, dall’altro determina l’aumento dell’incidenza della pressione fiscale sul Pil, e quindi un mancato effetto espansivo “spontaneo”, che equivale ad un’azione depressiva della congiuntura. Perché ciò accada andrebbe investigato: il dato quantitativo però resta.
Sul piano qualitativo, gli effetti dell’attuale gestione della finanza pubblica sono ancor peggiori: la pratica dei tagli lineari prosegue, gettando via il bambino con l’acqua sporca, i viziosi ed i virtuosi. Nessuna adozione di un sistema di budget a “base zero”, che periodicamente rialloca risorse in funzione delle priorità stabilite in sede politica, come invece da anni e sotto diversi governi si fantastica. La reazione di molti ministri, a fronte di tagli lineari, è quella di chiedere compensazioni incrementali, cioè altrettanto lineari, per ripristinare i capitoli di spesa di propria competenza. Da qui lo stallo, che è caratteristico di un paese in crisi fiscale come l’Italia, e che si ripropone ad ogni legislatura, non solo quelle ove in via XX Settembre abita Tremonti.
A questo punto esiste un problema, in apparenza tecnico, in realtà strettamente politico. Un governo che, per bocca del suo premier, promette sgravi fiscali e miracolose ripartenze, che regolarmente non avvengono. Ma soprattutto, un governo che non ha ancora realizzato che la tenuta dei conti in assenza di sviluppo è la corda a cui impiccarsi. La situazione, per l’immobilismo italiano, è destinata a peggiorare proprio nell’attuale congiuntura, che appare una jobless recovery, cioè una ripresa troppo debole per produrre crescita effettiva, cioè gettito fiscale. Per far scendere il rapporto deficit-Pil si può ridurre il numeratore e/o aumentare il denominatore. Ridurre il primo attraverso inasprimenti d’imposta, espliciti o striscianti, vuol dire affondare il paese. Per aumentare il secondo servono liberalizzazioni, cioè l’opposto di quanto finora attuato da governo e maggioranza, e molta pazienza.
Il ministro dell’Economia sembra aver deciso di perseguire un approccio contabile e tattico, dove la bottom line sfori il meno possibile, e non un approccio di politica economica, e di ridisegno del sistema. Nel brevissimo termine ciò può anche servire a rassicurare i mercati e le agenzie di rating. Nel lungo periodo, invece, questa scelta conservativa serve solo ad affondare il paese. Occorre l’iniziativa di colui il quale è responsabile degli indirizzi strategici, cioè del premier, per la gestione del cambiamento, cioè per riforme di struttura e di sistema, termine che in questo paese è ormai frusto quanto e più dell’aggettivo/sostantivo liberale. Finora ciò è mancato, sostituito da robuste dosi di ottimismo, che da solo sfortunatamente non produce riforme né crescita del Pil, malgrado alcune interpretazioni che scambiano le variazioni con i livelli.
Sono questi i momenti in cui dovrebbe essere chiaro che la politica economica è troppo importante per essere lasciata ai giuristi. Ma oltre agli economisti servono anche e soprattutto i premier.