Il Sole 24 Ore ha realizzato una tabella, tratta da dati elaborati da El Pais, che illustra alcune metriche fondamentali di sostenibilità del debito sovrano. Come noto il nostro paese, in sede di G20 e di Ue, ha enfatizzato il basso livello di debito privato come garanzia implicita della nostra solvibilità, e da questa posizione dialettica è fiorita un’ampia letteratura propagandistica, volta ad enfatizzare che saremmo ben più forti di come ci dipingono. Osservando i dati che seguono, non si direbbe proprio.
Come noto, l’argomentazione governativa sostiene che il nostro debito pubblico è sostenibile perché esiste un elevato risparmio privato, che si esprime sia in un’elevata percentuale di possesso domestico dei nostri titoli di stato, sia in un’elevata ricchezza immobiliare. La prima affermazione, come vi diciamo da tempo, è fallace. La percentuale di debito pubblico detenuto da non residenti (ultima fila dello spreadsheet del Sole) è del 47 per cento, poco meno della metà, a fronte di un 53 per cento nel caso della Germania e di un 50 per cento nel caso della Spagna. Nessuna diversità italiana, quindi: se i non residenti decidessero di smettere di comprare in asta i nostri titoli di stato, avremmo seri problemi. Che tuttavia potremmo contenere con una bella patrimoniale straordinaria sugli immobili, visto che in quell’ambito siamo effettivamente messi bene, avendo un patrimonio immobiliare netto (“debito immobiliare netto”) pari ad un mirabolante 178 per cento del Pil.
Ma i dolori sorgono quando si tratta del debito delle imprese non finanziarie, cioè del nostro sistema produttivo. Sappiamo che le nostre imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. La vulgata si conferma osservando il dato “Debito lordo delle società non finanziarie”, pari al 119 per cento del Pil, ma soprattutto “Debito sul patrimonio delle società non finanziarie”, pari al 135 per cento del Pil. Che significa quest’ultima voce? Essenzialmente, che le nostre imprese sono sottocapitalizzate. E quindi, che problemi implica tutto ciò? Problemi in capo al sistema bancario. Al peggiorare della congiuntura le perdite d’impresa finiscono con l’intaccarne il patrimonio. La difficile reperibilità di mezzi propri, spesso legati all’assetto proprietario familiare, spinge le imprese in condizioni di dissesto, mettendo a rischio il rientro dei crediti erogati dalle banche. Tracce di questa “sofferenza sistemica” le ritrovate in iniziative come la moratoria sui crediti delle PMI, di recente prorogata dall’Abi, e dallo stock delle sofferenze bancarie.
Quindi, riepilogando: la sottocapitalizzazione del sistema delle imprese implica un elevato ricorso al credito bancario, che pone problemi di rientro dei prestiti erogati dalle banche, che oltre dati livelli determina necessità di ricapitalizzare le banche, come di fatto sta avvenendo. Il canale di trasmissione della malattia italiana porta sempre alle banche, non dal versante dei mutui ma da quello dei crediti alle imprese. Fenomeno meno esplosivo e tendenzialmente più gestibile di quello che ha messo in ginocchio l’Irlanda e nei guai la Spagna, ma comunque problematico per la stabilità dell’infrastruttura finanziaria di un paese. Il nostro, nella fattispecie.
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