Su lavoce.info, Andrea Boitani e Antonio Massarutto tentano di spiegare per l’ennesima volta che non c’è nessuna privatizzazione dell’acqua, che l’accesso al servizio è e resta universale, che la responsabilità della fornitura continua a essere pubblica, che sono i piani di gestione approvati da soggetti pubblici a decidere quali servizi offrire, quanti investimenti fare, quali obiettivi di miglioramento perseguire, e che al “condominio cittadino” serve un “idraulico” (sia esso pubblico o privato) per far funzionare il servizio.
Tra le leggende metropolitane diffuse dai quesiti referendari, Boitani e Massarutto segnalano che il prezzo dell’acqua sale non a causa di un’eventuale gestione “privatizzata” ma perché, a partire dalla Legge Merli del 1994, sta progressivamente venendo meno il contributo della fiscalità generale ai costi di gestione, e di conseguenza la tariffa non potrà che salire (gli autori del post stimano fino al 20 per cento in più per un equilibrio di lungo periodo).
E’ importante enfatizzare che la tariffa deve comunque remunerare il capitale investito (sia in forma di mezzi propri, cioè equity, che di mezzi di terzi, cioè debito) oltre ad esprimere un premio per il rischio tipico d’impresa. Nessuna novità rispetto a quanto già accade per altri servizi di pubblica utilità, come cerchiamo di fare comprendere da qualche tempo.
Non sappiamo se obiettivo dei referendari fosse quello di spostare il costo dell’erogazione del servizio interamente sulla fiscalità generale (basta dirle, le cose), ma quello che è certo è che la vittoria del si non produrrebbe questo effetto. Scrivono Boitani e Massarutto:
Ad ogni modo, il quesito referendario abolirebbe l’inciso relativo alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ma non il principio, stabilito dallo stesso articolo 154 comma 1 una riga dopo, in base al quale la tariffa deve garantire la copertura dei costi, comprensivi degli investimenti. Dire che la tariffa deve coprire gli investimenti significa che, in ogni caso, il costo del capitale dovrà essere coperto: con cosa si ripagherebbero i debiti contratti con le banche, altrimenti? E se questo capitale fosse capitale di rischio (equity), il suo costo è rappresentato dall’utile netto aziendale. Quello che dovrebbe invece essere evitato (ma non serviva certo il referendum per ribadirlo) è che la tariffa contenga “extraprofitti”, ossia remunerazioni eccessive rispetto al costo-opportunità del capitale e al premio per il rischio.
Tanto rumor per nulla, benedetti figlioli referendari, come direbbe qualche pastore di anime. Da ultimo, se il problema (legittimo) sono gli effetti distributivi dell’aumento delle tariffe, esistono ovviamente meccanismi compensativi, come la modulazione della tariffa “secondo quote fisse significative parametrate ai valori catastali, in modo da ridurre l’incidenza sulle fasce sociali più deboli”, oppure (ipotesi che non ci entusiasma) “forme integrative di intervento della finanza pubblica, finalizzate a garantire che l’accesso al mercato dei capitali avvenga a condizioni più vantaggiose, e quindi con un minore impatto sulla tariffa”, cioè (immaginiamo) contributi in conto capitale al gestore che effettua gli investimenti. Oppure, come da noi suggerito, una sorta di “bonus acqua”, simile al bonus elettricità e gas, legato al disagio economico dell’utente come misurato dall’Isee o da altro strumento di accertamento reddituale sintetico.
Che dire, dunque? Due referendum sprecati. Il danno collaterale è che, se dovessero vincere i si in presenza di quorum, qualcuno si sentirebbe legittimato ad interpretare l’esito come embrione di una piattaforma politica radical-onirica. L’ultimo miraggio di una lunga serie.