Un italiano in Germania

Parlando al World Economic Forum di Davos, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha tentato di contemperare il rigorismo tedesco (inclusi alcuni caratteritici topoi, come quello sulla fiducia che verrebbe dalla stretta fiscale), con altre considerazioni ben più pragmatiche. Quelle che potrebbero risultare decisive per il futuro della politica monetaria dell’Eurozona.

Draghi si allinea alla declinazione tedesco-orwelliana del concetto di “unione”:

«Una unione fiscale come quella a cui potrebbe arrivare l’Europa sulla base del fiscal compact non comincia dalla condivisione dei rischi tra paesi, ma da misure interne che restituiscano “fiducia” in alcuni paesi dell’euro»

Appurato che si tratta di una unione che non è unione ma la sommatoria di diciassette strette fiscali, ci restano la speranza del do ut des tedesco dopo l’approvazione del patto fiscale, sotto forma non diciamo di un bazooka ma almeno di un enorme RPG, che sarebbe peraltro un eccellente catalizzatore di quella fiducia a cui Draghi rivolge il suo lip service filo-teutonico.

Altra lettura “tedesca” data da Draghi è quella sul valore segnaletico degli spread:

«Gli spread sono stati sempre un potente motore per le riforme di diversi governi. I paesi quindi devono prendere le misure necessarie per il risanamento»

Questa è una mezza verità e in questo momento è soprattutto una forzatura, e Draghi lo sa. Quando la liquidità scompare come è scomparsa in Eurozona, il livello dello spread punisce soprattutto i paesi impegnati nel risanamento. Che, nel breve periodo, è “sempre recessivo”, come ammette lo stesso Draghi confutando il pensiero magico della “contrazione fiscale espansiva”.

Draghi ha poi aggiunto: “Sappiamo per certo che abbiamo evitato un enorme credit crunch, una crisi di liquidità”. La frase va probabilmente decodificata nel senso che l’enorme fornitura di liquidità da parte della Bce ha attutito gli effetti fortemente prociclici dello stress test dell’EBA (che potrebbe tuttavia essere in parte ammorbidito nelle prossime settimane), entro un quadro già recessivo di suo. Le aste a breve stanno effettivamente andando molto bene, anche e soprattutto per il nostro paese, e la presenza di una garanzia implicita della Bce sulle banche dell’Eurozona sta favorendo anche il ritorno dei fondi monetari americani, che erano fuggiti nell’ultimo trimestre dello scorso anno, contribuendo alla terribile siccità creditizia.

Ciò premesso, a Draghi non sfugge comunque che il credit crunch è stato evitato solo “in media”, perché gli ultimi dati sulla crescita dell’offerta di moneta M3, che mostrano una decelerazione nel tasso tendenziale (cioè annuo) all’1,6 per cento da 2,1 per cento di novembre (e rispetto ad un target del 4,5 per cento), vedono il nostro paese in pesantissima contrazione del 4,5 per cento, che testimonia della profondità della recessione in cui ci troviamo.

Draghi ha poi ribadito che la Bce “difende la stabilità dei prezzi in entrambe le direzioni”. Pare una banalità ma suggerisce che l’Eurotower, in presenza di una disinflazione accentuata, tale da portare il tasso tendenziale d’inflazione (o grandezze da esso derivate) sotto il target del 2 per cento, potrebbe anche accentuare l’espansione monetaria. E poiché siamo prossimi al pavimento monetario, in termini convenzionali, non è da escludere che Draghi possa procedere a qualche forma di easing quantitativo di tipo “americano”, anche se non mirato specificamente al debito sovrano italiano, per evidenti motivi.

Non fa molto fine né genuinamente “europeista” dirlo, ma avere un italiano come Mario Draghi alla guida della Bce, in questo momento, è qualcosa per cui dovremmo tutti essere riconoscenti al destino, o a chi per esso.

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