Un treno chiamato spread

Prima assegnano il trasporto ferroviario locale a Trenitalia, con contratti di sei anni rinnovabili, senza uno straccio di gara. Si issano sul palchetto e dicono che tutto cambierà: cari elettori, ora penseremo a voi ed al vostro comfort di viaggio, sarà un contratto di servizio durissimo per questo cattivone di monopolista che specula sulla vostra pelle. Poi, quando accade l’immancabile “contrattempo”, tuonano e minacciano azioni legali, si trasformano nei difensori del pendolare prigioniero del carro piombato. Carta vince, carta perde. Cosa è il mercato? La competizione, le gare? Ma non scherziamo, e poi sapete che il capitalismo ha perso, no? Ora serve una robusta presenza pubblica, soprattutto in un paese come il nostro, sfregiato da un perdurante liberismo. Con la patrimoniale i treni (statali) arriverebbero in orario, signora mia, che manco sotto la buonanima di Benito. Niente concorrenza, siamo italiani, figli del paese in cui il concetto di “servizio universale” e la sua mistica parolaia toccano picchi nordcoreani. E ricordate: il nostro spread è figlio di questa classe politica, ma questa classe politica è figlia di questo elettorato. E il cerchio si chiude, a soffocarci.

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