Uno degli ultimi spasmi del governo Berlusconi fu, nell’estate 2011, il tentativo di accorpamento delle festività. Non se ne fece nulla, anche a seguito dell’insorgere della fazione di quanti urlavano al sacrilegio in caso di soppressione delle feste patronali, ma Giulio Tremonti giunse a quantificare dalla manovra un rimbalzo del Pil di ben lo 0,1 per cento, non è chiaro in base a quali calcoli. Col governo Monti, l’alfiere del proclama “facciamo troppe ferie” è diventato il sottosegretario all’Economia, Gianfranco Polillo. Il quale, questa estate (il caldo stimola riflessioni di questo tipo, evidentemente) giunse a dichiarare che la rinuncia ad una settimana di ferie avrebbe comportato un poderoso aumento di Pil, dell’ordine di circa un punto percentuale. Il suggerimento, al netto della retorica sulle troppe vacanze, lasciava e lascia perplessi, se inquadrato in un’ottica “produttivistica”: ad esempio, la maggiore produzione così ottenuta rischierebbe seriamente di finire in scorte, vista l’assenza di domanda che caratterizza l’attuale fase congiunturale. Peraltro, tale aumento degli stock andrebbe anche finanziato, scontrandosi con la feroce stretta creditizia in atto.
Forse Polillo immaginava che l’accresciuto utilizzo di manodopera avrebbe ridotto i costi unitari di produzione, causando una disinflazione che avrebbe accresciuto il potere d’acquisto dei lavoratori e ci avrebbe resi competitivi nelle esportazioni, data l’impossibilità di svalutare il cambio. Ma della proposta di Polillo esiste anche una lettura meno folkloristica. La soppressione di parte dello stock di ferie avverrebbe senza monetizzazione, con un taglio secco al costo del lavoro, che porta con sé un vistoso recupero di competitività.
Su produttività e competitività come emergenza nazionale il governo Monti è del resto sempre più vocale. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, non perde occasione per ribadire che occorre aumentare la produttività del lavoro, anche attraverso il decentramento della contrattazione collettiva a livello aziendale, e tende a condire il tutto con considerazioni sabaudo-moralistiche sui lavoratori che sarebbero “più rilassati di altri”. Come se la produttività del lavoro fosse univocamente determinata da questa “propensione antropologica” all’ozio e non anche dalla organizzazione d’impresa, dal grado di concorrenza esistente sui mercati, dalla tecnologia disponibile ai lavoratori. Del resto, basterebbe buttare un’occhio alle statistiche dell’Ocse per scoprire che non è per nulla vero che gli italiani sono pigri, in termini di ore lavorate.
Purtroppo, questa logora vulgata dal sapore assai antico nasconde ben altro obiettivo. Un paese in crisi di competitività, come l’Italia, ha bisogno di ridurre drasticamente il proprio costo del lavoro relativamente a quello dei propri partner commerciali, ma oggi questa riduzione non può avvenire attraverso svalutazioni del cambio, visto che siamo nella moneta unica. Ecco quindi che diventa fatale ricorrere a riduzioni delle retribuzioni nominali in qualunque modo possibile, dalla riduzione dei giorni di ferie retribuite al taglio della retribuzione nominale.
E proprio là stiamo andando, anche a causa delle condizioni ormai prossime al dissesto del mercato del lavoro italiano, con disoccupazione in costante ascesa e moltiplicazione dei casi di crisi aziendali. Da un taglio netto al costo del lavoro si otterrebbe (forse) la salvaguardia di alcuni posti di lavoro altrimenti destinati a morte certa, e si consentirebbe alle imprese di aumentare la propria competitività internazionale, sopperendo ad impossibili svalutazioni del cambio. In Portogallo, altro paese alle prese con una difficile transizione, il governo ha da poco deciso forti aumenti dei contributi sociali a carico dei lavoratori per ridurre quelli che gravano sulle imprese, nel tentativo di riprodurre gli effetti di una svalutazione del cambio.
Un taglio delle retribuzioni nominali degli italiani farebbe il “lavoro sporco” di raddrizzare la competitività senza dover attendere riforme della contrattazione collettiva tra le parti sociali, che di solito richiedono ere geologiche per concretizzarsi. Naturalmente ci sarebbe il “trascurabile” effetto collaterale di una popolazione impoverita, oltre che incastrata da livelli di tassazione e tariffe amministrate prossimi all’esproprio. Senza contare che il taglio di reddito aumenterebbe le insolvenze private, ad esempio su mutui e prestiti personali, e finirebbe col richiedere qualche forma di salvataggio del nostro sistema bancario, che già oggi emette scricchiolii inquietanti. La domanda interna morirebbe, e con essa molte altre attività produttive, in attesa che il boom del nostro export ci risollevi dal fondale. Sarebbe un evidente processo di “vietnamizzazione” della società italiana, temiamo inevitabile.
La triste realtà è che gli italiani sono avviati ad un impoverimento come correzione di squilibri e malgoverno dell’economia che datano da lustri. Di ciò il cosiddetto governo tecnico è largamente incolpevole, anche se paga il fatto di trovarsi sul luogo del delitto al momento della scoperta del cadavere. Quello che forse saremmo legittimati a chiedere ai tecnici è di evitare di ammannirci pietose bugie su mirabolanti aumenti di retribuzione legati alla mitologica produttività, che per questa generazione resteranno nel libro dei sogni.