(Post tecnico-divulgativo su un tema di confine fiscale-finanziario. Se siete personcine più alla buona, potete sempre ripiegare sulle ultime dichiarazioni di Brunetta sul valore salvifico della cancellazione dell’Imu prima casa)
Nei giorni scorsi Apple ha emesso i suoi primi corporate bond, per un totale di 17 miliardi di dollari ripartiti su sei emissioni, due a tasso variabile e quattro a tasso fisso. L’emissione fa parte di una strategia di restituzione agli azionisti, entro la fine del 2015, di cento miliardi di dollari della mostruosa liquidità accumulata dalla società di Cupertino. In particolare, è prevista entro il 2015 l’effettuazione di riacquisti di azioni proprie per 55 miliardi di dollari, mentre il resto dell’operazione di restituzione avverrà a mezzo di special dividend. Apple è stata di fatto costretta ad agire in questa direzione per le pressioni di alcuni hedge fund che ritengono che una strategia di semplice ritenzione della liquidità in eccesso porti alla distruzione di valore per gli azionisti. La domanda dei non addetti ai lavori sorge quindi spontanea: perché emettere debito se la società è così mostruosamente liquida e continua a produrre un free cash flow (tra 40 e 45 miliardi di dollari annui) che farebbe invidia a molti stati sovrani? La risposta sta in due parole: tax planning.
Riguardo il costo del debito di nuova emissione, siamo a livelli ridicoli: Apple è una società dal rating un livello sotto la tripla A (Aa1 per Moody’s e AA+ per S&P), senza indebitamento prima di oggi e, come detto, con un flusso di cassa libero che resta imponente, visti i margini stratosferici generati, malgardo il recente ridimensionamento. Il bond triennale a tasso fisso è stato prezzato a 20 punti base sopra il Treasury di pari scadenza, per una cedola dello 0,51 per cento, mentre il trentennale è uscito al 3,88 per cento, un punto percentuale sopra il corrispondente titolo governativo.
Perché ricorrere al debito, quindi, sapendo che la società galleggia sopra un oceano di 145 miliardi di dollari di liquidità, ed ogni anno produce tra 40 e 45 miliardi di cassa? Il motivo è da ricondurre al fatto che “solo” 45 miliardi di dollari sono materialmente negli Stati Uniti, mentre cento miliardi si trovano nelle controllate estere di Apple in virtù di strategie di pianificazione fiscale che peraltro sono più facilmente realizzabili, attraverso di prezzi di trasferimento, in multinazionali che hanno una elevata incidenza a bilancio dei cosiddetti intangibles, in primo luogo il marchio ed i brevetti.
Emettere questi sei bond costerà ad Apple circa 310 milioni di dollari annui in interessi passivi. Poiché tali interessi sono fiscalmente deducibili nella misura dell’aliquota nominale d’imposta statunitense sulle società (oggi al 35 per cento), se ne ricava che la società avrà una schermatura fiscale di circa 100 milioni di dollari annui. Per contro, per generare i 17 miliardi di dollari di controvalore delle emissioni obbligazionarie, Apple si sarebbe trovata costretta a rimpatriare ben 26 miliardi di dollari, sui quali sarebbe per l’appunto stata applicata l’aliquota del 35 per cento.
Ciò accade perché il sistema fiscale societario statunitense è basato sulla cosiddetta imposizione mondiale (worldwide tax), in cui cioè le società americane pagano le tasse all’aliquota nominale domestica sui dividendi che le controllate estere pagano alla casa madre, al netto di eventuali crediti d’imposta esteri che riducano od eliminino la doppia imposizione. L’alternativa, prevalente in giro per il mondo e su cui si dibatte anche negli States, è quella di passare ad un sistema “territoriale”, in cui le imprese pagano le tasse solo sugli utili generati in patria. Proprio l’inesistenza di un sistema territoriale d’imposizione societaria induce molte multinazionali statunitensi, in caso di restituzione agli azionisti di liquidità non altrimenti impiegabile, a ricorrere all’indebitamento, come sta facendo Apple.
Queste strategie di ottimizzazione fiscale delle società globali sono criticate perché viste come forme di elusione fiscale (tax avoidance). Interessante, in effetti, la ricostruzione del tax rate effettivo sopportato da Apple, in base alle comunicazioni obbligatorie della società. Nel 2012 Apple avrebbe fatto accantonamenti ad imposte sul reddito pari al 25 per cento degli utili ante imposte, mentre sugli utili conseguiti all’estero la pressione fiscale sarebbe pari a solo il 3 per cento, secondo calcoli del Financial Times.
Come finirà, quindi? Gli Stati Uniti riusciranno a passare al modello impositivo territoriale per ridurre le distorsioni, fermo restando che l’attuale regime è comunque un parziale ibrido con la worldwide tax? Le problematiche sono complesse e gli interessi in gioco molto resistenti al cambiamento. Soprattutto considerando che l’eventuale adozione del sistema territoriale necessiterebbe, con alta probabilità, anche del rafforzamento degli schemi nazionali antielusivi, tra i quali figurano controlli sui prezzi di trasferimento e limiti alla deducibilità degli interessi passivi nei prestiti intercompany su differenti giurisdizioni fiscali nazionali. Per un commento descrittivo ma comunque tecnico della tematica, potete leggere qui.
Resta una evidenza incontrovertibile: il tax rate complessivo delle grandi aziende globali statunitensi resta estremamente contenuto, anche senza considerare casi estremi. Anche per questo motivo è difficile pensare a cambiamenti significativi dello status quo fiscale statunitense. Ogni altra considerazione sulla soverchiante asimmetria tra capitale e lavoro la lasciamo al lettore.
P.S. Apple ha pagato commissioni per circa 53 milioni di dollari al consorzio di collocamento, in cui Goldman Sachs ha sottoscritto il 72 per cento delle obbligazioni e Deutsche Bank il 17,5 per cento. Alla fine, il barocco fiscale americano torna utile a molti.
Lettura complementare consigliata: The clever economics behind Apple’s $17 billion bond offering, con un paio di conticini sfiziosi che danno la misura dell’ottimizzazione fiscale sottostante l’operazione.