Cittadini di bottega

“Non siamo per il semplice ritorno alla situazione pre-liberalizzazioni. Ma abbiamo presentato una proposta di legge che contempera in modo equilibrato le esigenze degli esercenti, dei consumatori e dei lavoratori del settore commercio. Una legge che, soprattutto, difende i piccoli negozi dei centri storici a rischio desertificazione e i lavoratori di un comparto in cui i diritti subiscono la pressione fortissima di un precariato dilagante”. Lo ha detto stamattina la delegazione dei deputati del MoVimento 5 Stelle che, a Piazza Montecitorio, ha incontrato le sigle e i comitati in protesta contro le liberalizzazioni delle aperture domenicali e festive degli esercizi commerciali, liberalizzazioni volute dal governo Monti. In attesa della palingenesi dei moti di piazza, quella che fa brillare gli occhietti a Casaleggio, dedichiamoci al piccolo mondo antico delle botteghe, quindi.

Si parte con una terza via che manco Blair:

«La nostra proposta rifiuta la dicotomia ‘liberalizzazioni sì, liberalizzazioni no’ – spiega il deputato emiliano M5S Michele Dell’Orco, primo firmatario della legge – e, sul modello modenese, mette a punto un sistema di turnazione delle aperture festive regolamentato dalle regioni, con un tetto massimo di 12 festività lavorative annuali per esercizio. La nostra proposta lascia inoltre fuori le località turistiche dove riteniamo che un sistema liberalizzato riesca a trovare da sé il suo equilibrio»

E’ curiosa, questa forma di “razzismo imprenditoriale”. Nelle località turistiche il sistema liberalizzato “riesce a trovare da sé il suo equilibrio”, mentre nelle aree urbane vivono ed operano dei beoti che non ne vengono a capo senza attenta “regolamentazione regionale”?

Dell’Orco poi chiude, bontà sua:

«Non intendiamo infatti privare i cittadini della possibilità di fare acquisti nei giorni festivi e domenicali, perché sappiamo bene che si tratta di un servizio importante, soprattutto nelle grandi città. E non intendiamo tornare al punto di partenza. Vogliamo però difendere le piccole botteghe che animano il cuore pulsante dei nostri centri storici e, soprattutto, vogliamo tutelare i lavoratori del commercio che hanno visto i loro ritmi di vita stravolti a causa delle aperture indiscriminate, senza in cambio riceverne benefici tangibili in termini di reddito»

Questi punti sono molto importanti, detto senza ironia alcuna. Prendiamo per buono il principio secondo il quale le “piccole botteghe” vanno difese. In che modo? Proviamo a distinguere: se la competizione avviene sulla qualità della prestazione, le “piccole botteghe” non hanno nulla da temere dalla liberalizzazione degli orari: il loro prodotto/servizio di eccellenza continuerà a trovare domanda, sia che la domenica restino aperte sia che chiudano. Se invece la competizione è sui prezzi e più in generale sulle strutture di costo, frenare le aperture festive altrui non rimedierà allo svantaggio di costo delle “piccole botteghe”. Ma forse il passo successivo, per il M5S, sarà la presentazione di un ddl in cui si stabiliscono limiti minimi ai prezzi per articoli e tipologie merceologiche, per permettere alle sopracitate “piccole botteghe” di restare competitive (si fa per dire) sui costi.

Altro punto del cittadino Dell’Orco è la mancanza di “benefici tangibili in termini di reddito” dalle aperture festive. A cosa si deve, questa insufficiente crescita del reddito degli addetti al commercio? Forse al fatto che si tratta di figure generalmente non specializzate, per le quali quindi esiste un eccesso di offerta sulla domanda? E porre limiti agli orari di apertura servirebbe ad innalzarne la specializzazione, e quindi il reddito? O forse il prossimo ddl del M5S sarà l’applicazione di un reddito minimo per i lavoratori del commercio (e non solo) o di una integrazione reddituale pubblica sopra una soglia minima di reddito? La seconda soluzione è ovviamente preferibile, se solo si trovassero i soldi. Ma sono dettagli. Quello che proprio non è chiaro è perché scatenare questa patetica guerra di religione sulle aperture festive manco si trattasse di una leva strategica di crescita.

Se il problema sono le strutture di costo delle differenti tipologie di esercizi commerciali, e se la competizione resta sui prezzi, c’è poco da fare. Se il timore dei comuni è la desertificazione dei centri abitati ed il conseguente depauperamento relazionale, i comuni aprano dei centri sociali. Il costo per la collettività sarà inferiore rispetto a mantenere i prezzi artificialmente elevati. Tutte le restanti “terze vie” sono patetici espedienti per tenersi buone delle constituency e portano ad esiti grotteschi, come l’ibrido tedesco-americano dell’ineffabile Zanonato.

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