Tremori emergenti

Sul New York Times, un pezzo che spiega in modo molto comprensibile quello che sta diventando un enorme problema per l’economia (e la società) cinese: lo sboom immobiliare, dopo l’ubriacatura di credito facile. Dalla Cina, le scosse si propagano al mondo, soprattutto ma non esclusivamente agli altri paesi emergenti, ed incrociandosi con la tendenza al rialzo dei rendimenti obbligazionari negli Stati Uniti rischiano di produrre un periodo di forte instabilità sociale e politica in ampie parti del mondo.

L’articolo del NYT racconta di città opulente all’inverosimile divenute improvvisamente città fantasma dopo lo scoppio della bolla di credito. Attività commerciali che chiudono, mentre i loro proprietari fuggono nottetempo (se riescono) per non dover pagare i propri debiti. Al crack dei crediti immobiliari inesigibili, delle ghost town e dei cantieri fermi si affianca quello sulle materie prime, che il rallentamento dell’economia cinese ha già provveduto a raffreddare considerevolmente. Ed anche qui la crisi di credito emerge, con la corsa alle miniere di carbone che ha rapidamente portato ad un eccesso di offerta ed al crollo dei prezzi, perché produzione di elettricità ed acciaio non hanno retto il passo. Ma è tutto il paese, come noto da tempo, a soffrire di ampia sovracapacità produttiva, e questo innesca sofferenze bancarie e pressioni deflazionistiche sui prezzi che rischiano di creare un disastro nell’economia cinese ed in quella mondiale.

I problemi sono poi esacerbati dalla presenza di un ampio e diffuso settore creditizio informale, alimentato da privati. I motivi di questo sviluppo dello shadow banking sono noti: per molto tempo le banche pubbliche cinesi hanno potuto prestare solo a tassi molto contenuti, di poco superiori all’inflazione, ed in regime di contingentamento, cioè per quote. Allo stesso modo, anche i tassi sui depositi sono regolati su livelli inferiori all’inflazione. Da qui la corsa dei risparmiatori cinesi per non vedere erodere il valore reale dei propri risparmi. Partecipare a progetti di investimento che promettono rendimenti reali a doppia cifra era troppo allettante, per tutti. In parallelo, la regolamentazione bancaria ha favorito lo sviluppo di banchieri-ombra, spesso quadri di partito, che ottenevano prestiti dalle banche pubbliche a tassi bassi e li prestavano agli imprenditori a condizioni molto più onerose, arricchendosi.

Il problema del settore bancario informale è che i prestatori non hanno tutela legale in caso di insolvenza del debitore (escludendo forme di “recupero crediti” poco ortodosse e vecchie quanto il mondo), quindi domanda e offerta si aggiustano sui prezzi, cioè sui tassi chiesti per prestare. L’articolo del NYT cita casi di credito informale alle piccole e medie imprese con tassi passati da un già insostenibile 25-40% al 125%. La situazione si sta rapidamente avvitando: l’eccesso di capacità produttiva causa dissesti, che causano perdite ai creditori informali, che alzano i tassi a livelli di usura (anche per la Cina), causando nuovi dissesti.

L’articolo cita opportunamente la famigerata regola che noi italiani dovremmo ormai avere imparato a conoscere:

«La maggior parte delle analisi sull’economia cinese guardano solo al tasso reale di crescita economica, quest’anno intorno al 7,5%. Ma per le vendite e profitti delle imprese, che determinano la loro capacità di ripagare i debiti, ciò che conta realmente è il tasso di crescita nominale, che è la somma di crescita economica reale più inflazione. Le aziende private potevano permettersi di indebitarsi a tasso d’interesse in doppia cifra perché la crescita nominale tra il 16 ed il 23% annuo tra il 2004 ed il 2011 superava il tasso d’interesse. Ma la crescita nominale è rallentata lo scorso anno al 9,8% ed è scesa ancora nella prima metà di quest’anno, ad un passo annuale dell’8,8%»

Questa è la ricetta sicura per il dissesto, soprattutto considerando che le municipalità traevano ampie risorse fiscali dalla tassazione di immobili e terreni. I privati che hanno partecipato a “consorzi” informali di prestatori e stanno perdendo i propri risparmi a causa dei fallimenti dei debitori manifestano tutta la propria rabbia, chiedendo alle autorità di “fare qualcosa”. E qualcosa è stato fatto, ma di non esattamente risolutivo: mettere manifesti per le strade sconsigliando di partecipare agli schemi di credito informale. Meglio che nulla.

Nel frattempo, il rallentamento cinese colpisce i paesi vicini: l’Australia, in affanno sulle materie prime ed a sua volta a rischio di sboom immobiliare: l’Indonesia, che alla Cina vende soprattutto carbone, alluminio e olio di palma, e che sta subendo deflussi di capitale a causa del rialzo dei rendimenti americani, legati alla prossima fuoriuscita dall’easing quantitativo. Il paese perde riserve valutarie, così come accade a Brasile e India, e le banche centrali reagiscono alzando i tassi, ma così facendo affossano ulteriormente l’economia. Non solo: i bilanci pubblici, carichi di sussidi per alimentari ed energia, vanno in rosso, ed i governi tentano di mettere una toppa. Ma tagliare i sussidi su generi di prima necessità alimenta inflazione e moti di piazza, e così via.

Il rallentamento del blocco dei paesi emergenti rischia di non essere immune da conseguenze politiche, e di creare condizioni per ulteriori deflussi di capitali globali. La ripresa dell’Occidente, se esiste, potrà forse attutire il colpo, ma se andremo verso un periodo di sostenuti rialzi dei tassi d’interesse sul dollaro (che allo stato attuale ci sembrano improbabili), i rischi per l’economia globale appaiono forse sottostimati. Aspettando che Pechino si inventi qualcosa per salvare nuovamente se stessa ed il mondo.

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