L’evoluzione della congiuntura economica è da sempre caratterizzata da una qualche componente di “rumore” statistico nei dati pubblicati e nelle evidenze aneddotiche, ma raramente come in questo periodo stiamo assistendo ad un vero e proprio frastuono, che accresce l’incertezza delle previsioni proprio alla vigilia (vera o presunta) di progettate discontinuità di politica economica.
Il primo generatore di incertezza è l’ormai celeberrimo tapering, cioè la progressiva riduzione degli acquisti di titoli di stato ed obbligazioni ipotecarie da parte della Fed, oggi pari a 85 miliardi di dollari mensili. E’ ormai dal 22 maggio, quando Ben Bernanke annunciò che i tempi erano maturi per avviare la fuoriuscita dall’operazione nota come QE3, che i mercati e gli analisti sono stati colti da isteria divinatoria, rapidamente volta in paranoia. Sarà a luglio? Settembre? Dicembre? Finiti gli acquisti alzeranno i tassi ufficiali a metà del 2014 o nel 2015? La conseguenza immediata di questa nevrosi collettiva è stata la progressiva fuoriuscita di capitali da quegli asset che maggiormente avevano beneficiato degli acquisti della banca centrale statunitense.
E quindi, il rendimento del Treasury decennale, che stava ben sotto il 2 per cento, inizia a salire verso il 3 per cento; i mutui standard trentennali si dirigono verso il 5 per cento; i capitali fuoriescono copiosi dai paesi emergenti, dopo averli beneficiati e falsamente rassicurati circa la solidità dei loro fondamentali economici. I guai, come sempre in questi casi, son per i paesi che hanno sviluppato forti deficit delle partite correnti, che vanno finanziati da afflussi di capitali esterni, pena dolorose contrazioni economiche mentre si cerca di capire perché si è persa una competitività che forse non si è mai avuta.
Non è un caso che la stampa specializzata internazionale abbondi, in queste ore e questi giorni, di editoriali contrastanti, in cui da un lato si sostiene che non siamo più nel 1997, la precedente crisi asiatica, perché ora i paesi emergenti sono ricchi di riserve valutarie e possono reggere lo shock, mentre altri editoriali rimarcano che la massa degli emergenti non è più quella di quindici anni addietro, e quindi la loro caduta in recessione finirebbe con l’avere impatto globale, quindi anche sui paesi sviluppati. Senza contare che pressoché tutti gli emergenti hanno in essere sistemi di sussidi pubblici sui generi di prima necessità, che sono importati. Quindi un deprezzamento del cambio si traduce automaticamente in deficit pubblico, se si vuole isolare la popolazione dal maggiore costo delle importazioni, oppure in maggiore inflazione, in caso si cerchi di preservare i conti pubblici.
Anche negli Stati Uniti, che finora hanno suscitato ammirazione e curiosità, essendo apparentemente riusciti a sfuggire agli effetti della stretta fiscale attuata a inizio anno ed in primavera con i tagli automatici della sequestration, i segnali di ripresa sostenibile non sono affatto univoci: intanto, ieri il dato sulle vendite di case nuove in luglio ha suggerito che in molti hanno accelerato gli acquisti, per mettersi al riparo da rialzi dei tassi. Ma se le cose stanno in questi termini, l’immobiliare americano rischia una gelata d’autunno. Senza contare che le previsioni Fed ipotizzano un rialzo del Pil statunitense nel secondo semestre vicino al 3,5%, che col passare delle settimane appare sempre più una chimera. E’ bastato annunciare la fuoriuscita dalla politica monetaria non convenzionale per produrre una stretta monetaria violenta e concentrata nel tempo, praticamente in tutto il pianeta, che ha scarsa o nulla attinenza con la presenza di crescita economica, attuale e prospettica. Di questo la Fed non potrà non tenere conto.
In Eurozona, dopo gli entusiasmi per il Pil in ripresa (anche se non ovunque), si scopre che la crescita tedesca del secondo trimestre ha una non trascurabile componente di spesa pubblica e per costruzioni. Nel primo caso c’è fortunato tempismo rispetto alle elezioni del prossimo 22 settembre, nel secondo pare confermarsi il recupero dei livelli di attività dopo un primo trimestre gelido, sul piano climatico. Comunque serviranno conferme, perché questa crescita non pare di qualità eccelsa. Nel frattempo il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, tenta di fare un discorso adulto ai propri connazionali, ed afferma che alla Grecia servirà un altro salvataggio il prossimo anno, sia pure di limitata entità ed escludendo tassativamente svalutazioni del debito in essere. Non ci vuole un master in cartomanzia per realizzare che nessuno verrà fatto uscire dall’euro, e che ci aspettano molti mesi (ed anni) di contraddizioni e spasmi, sperando che “accada qualcosa”, anche al limite di erogare aiuti a tasso zero e scadenza perpetua ai paesi in assistenza finanziaria.
L’autunno, con le sue nebbie, è alle porte.