Settimana positiva per azioni ed obbligazioni, con materie prime che restano indietro, nella riproposizione della reflazione di attivi dello scorso anno. Nuovi massimi storici per l’azionario statunitense e nuovi massimi di ciclo per l’azionario globale. L’accordo su bilancio e debito federale statunitense rinvia la crisi e lo scontro all’inizio del prossimo anno.
Lo stallo al Congresso finirà probabilmente col provocare una lieve riduzione della crescita del trimestre in corso. Ciò ridurrà ulteriormente la probabilità che la Fed decida di avviare la fuoriuscita dal QE3 a dicembre. Apparentemente, quindi, da oggi a fine anno esiste poco o nessun rischio di eventi avversi per economia e mercati. Gli investitori dovrebbero quindi tornare a focalizzarsi sui fondamentali e sui parametri di sconto dei flussi di cassa attesi. Poiché al momento il consenso sulle stime di crescita economica e utili aziendali appare stabile, la determinazione del valore degli attivi viene a ricadere in misura decisiva sul premio al rischio. Tra i vari mercati, il premio al rischio azionario appare ancora quello storicamente più elevato. Il ridotto rischio di avvio di manovre restrittive da parte della Fed posiziona favorevolmente anche l’obbligazionario high yield e quello emergente.
Sul mercato dei titoli di stato in settimana si sono registrare flessioni di rendimenti (cioè recuperi di prezzo) un po’ ovunque, dopo l’accordo sul bilancio a Washington. Il mercato al momento ritiene che non vi sia all’orizzonte un rischio di rialzo dei rendimenti. Pertanto le strategie si focalizzano quasi esclusivamente su strategie di carry e ricerca di rendimento, come accadeva prima dell’annuncio di Ben Bernanke dello scorso 22 maggio. Questo atteggiamento, unito al consenso emergente che la Fed rivedrà al ribasso le proprie stime di crescita per l’ultimo periodo dell’anno, sta determinando ricoperture alle posizioni corte di duration. In Eurozona, dato il contesto globale e locale, la periferia resta l’ambito preferito per l’adozione di strategie di carry, anche se i rendimenti assoluti sono già calati in modo sostanziale. Sui mercati emergenti, il debito in valuta locale beneficia del rally dei Treasuries statunitensi, ed appare quindi attrattivo.
Sul mercato azionario, l’accordo fiscale negli Stati Uniti ha spinto a nuovi massimi di ciclo. La reporting season statunitense fornisce come al solito indicazioni miste. Proiettando i risultati delle aziende che hanno sinora riportato si ottiene un livello di utile per azione ed un multiplo di prezzo-utile che pone l’indice S&P lievemente sopra la propria media storica. Il fatturato per azione continua tuttavia a deludere, con una lieve sorpresa negativa sinora, ma in passato gli investitori hanno mostrato di non reagire a tale dato. Gli indicatori di flussi continuano ad essere positivi per l’azionario emergente.
Sul mercato delle obbligazioni a spread in settimana si sono registrati restringimenti generalizzati.
Sul mercato dei cambi, dollaro in ulteriore indebolimento dopo l’accordo su bilancio e debito, dopo essere stato debole nelle more dell’incertezza del negoziato a Washington. Ci si domanda se le continue incertezze sul debito federale statunitense causate dalla disputa ideologica al Congresso risulteranno tali da mettere a rischio lo status di benchmark privo di rischio dei Treasury e, di conseguenza, quello di valuta di riserva internazionale del dollaro. Ogni considerazione in questo senso non potrà tuttavia prescindere da un confronto con altre aree economiche, non meno disfunzionali degli Stati Uniti nelle proprie dinamiche politiche, oltre che dalla indiscussa maggiore liquidità delle posizioni in dollari. L’impatto sul dollaro dovrebbe essere più ciclico che strutturale, nel senso che lo stallo ed il freno alla crescita che esso induce tendono a sopprimere la risalita dei rendimenti in dollari.
In settimana, materie prime pressoché invariate, con il rally dei metalli base e preziosi che compensa la flessione dell’energia. Lo spread tra greggio Brent e WTI si è nuovamente allargato ed è oggi a circa 8 dollari al barile, per effetto della crescita più rapida delle attese nell’offerta statunitense, frutto soprattutto del dimezzamento dei tempi di perforazione favorito dalle nuove tecnologie.