Con la cultura non si mangia, ma a volte si alza il gomito

Capita che vi sia un dibattito, neppure recentissimo, sugli effetti dell’automazione e dell’innovazione tecnologica spinta, che sta iniziando ad erodere fasce crescenti di profili professionali che un tempo sarebbero stati più che sicuri di avere un mercato. Capita che il tema, che è terribilmente serio e complesso, venga affrontato, con altrettanta serietà (tra gli altri) da Robert Skidelsky, biografo di John Maynard Keynes. E poi capita che arrivi l’italiano di turno e butti tutto in vacca, in nome di una sociologia a metà tra il salotto ed il bar. Continua a volerci enorme pazienza.

Oggi, su Repubblica, c’è una intervista al sociologo Domenico De Masi. E’ cosa piuttosto breve, quindi anche i concetti tendono ad essere liofilizzati. Purtroppo esistono precisi limiti alla liofilizzazione dei concetti, a meno che i medesimi non vengano veicolati da qualcuno che ha uno strano concetto della divulgazione. Soprassediamo al fatto che, nel pezzo, certamente per lapsus, si parla di John Manfred Keynes, il quale diceva, secondo De Masi:

[…] «per vincere la disoccupazione non c’è altra soluzione che lavorare di meno. E occupare il tempo libero che ne deriva incrementando le spese per la cultura o altrimenti sarà un dramma»

Premesso che dire una cosa del genere, in un paese confuso, sull’orlo del dissesto e con una classe politica che capitalizza il proprio analfabetismo economico oltre quello degli elettori è cosa da cattivi maestri, De Masi dà mostra di aver almeno ruminato il tema maledettamente serio della crescente erosione delle figure professionali qualificate per opera della innovazione tecnologica. Solo che, in chiusura della mini-intervista, De Masi non resiste al richiamo della foresta di buttarla sulla caciara dell’attualità (oltre che sulla “pedagogia culturale”, vedi riferimento all’impiego di tempo libero da parte di Berlusconi) e sulla abituale correlazione causale, e ne esce questa cosa:

«Pagare uno stipendio senza lavorare è sbagliatissimo. Occorre lavorare drasticamente di meno. Invece, continuiamo a pensare al lavoro come se non ci fossero le macchine che ci hanno sostituito. Il danno vero lo fanno i manager che da noi si vantano di lavorare 10-12 ore al giorno. C’è uno studio che dimostra che se anche da noi gli uffici chiudessero alle 17 avremmo 500mila posti di lavoro in più. In Germania lo fanno e non mi pare che abbiamo una tasso di disoccupazione come il nostro…»

Che dire? Nulla, è meglio. Se qualcuno fosse invece interessato al tema in maniera seria e non dal dehors di un bar, mentre finisce il suo bicchierino sentenziando che non ci sono più le mezze stagioni o che “Venezia è bella, ma non ci vivrei”, può sempre leggersi direttamente le riflessioni di Skidelsky, e soprattutto meditare sulle prescrizioni di politica economica che da esse conseguono. Prima fra tutte, la necessità di un’azione “redistributiva” pesante da parte dello stato, che cioè riduca drasticamente l’accumulazione da parte del famoso 1% (o più propriamente, dello 0,1%) della società. Giusto? Sbagliato? Komunista? Liberale? Pikettiano? Fate voi ma andate alle fonti e non al circo, se vi è possibile. Cioè se non siete troppo italiani e riuscite a dominare la pulsione di polarizzarvi subitaneamente, ed ingaggiare l’abituale guerra di religione da dopolavoro o da social network.

Ovviamente, sia detto per inciso, un tema così importante finirà da noi per essere elaborato e declinato secondo le solite pulsioni pavloviane: o nella lisergica versione grillesca o in una cosa tipo “patrimoniale secca” o “aumento della tassazione sulle rendite finanziarie pure”, con terzomondisti, dossettiani e lapirani (si dirà così?) di cinico complemento, in un dibbatttito “culturale” di quelli in cui noi italiani riusciamo ad eccellere tanto quanto De Masi eccelle nella divulgazione sociologica. Un paese tristissimo, quello in cui il confronto sulle idee è ridotto in queste miserrime condizioni. Attendendo che “le macchine” da noi sostituiscano anche i sociologi.

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