Settimana di vistosi ribassi per azioni, materie, prime, crediti, con volatilità in forte aumento. Ribassi in doppia cifra da inizio anno per le materie prime. Ampio calo dei rendimenti sui titoli di stato dei paesi sviluppati core.
La virulenza del movimento porta a chiedersi ed investigare se possa trattarsi di una semplice correzione dei recenti eccessi (in termini di valutazione), oppure qualcosa di fondamentale e tale quindi da richiedere un cambio di strategia, fermo restando che spesso l’ampiezza dei movimenti tecnici è tale da incidere sui fondamentali sottostanti, quindi le due dimensioni possono coesistere e retroagire, in senso di amplificazione o riduzione della iniziale turbolenza.
Il dato fondamentale, e non da oggi, sono le continue delusioni sulla crescita accumulate quest’anno e l’età del ciclo espansivo, ormai molto maturo con riferimento alla durata media storica. I dati di agosto della produzione industriale sono stati in media piuttosto deludenti, soprattutto in Eurozona ed in Germania, pur in presenza di indici dei direttori acquisti che pur rallentando mostrano ancora espansione. Occorre anche tenere presente che, per la Germania, esiste il non lieve sospetto che i dati di agosto siano stati alterati da anomalie nel periodo delle ferie estive, non rettificabili dal processo di destagionalizzazione. Riguardo l’azione sui prezzi di mercato degli attivi rischiosi, e la loro eventuale retroazione sulla congiuntura, è verosimile ritenere che il calo del 20% sui prezzi del petrolio negli ultimi tre mesi (espresso in dollari) e la flessione di circa mezzo punto da inizio anno dei rendimenti sui tassi ipotecari statunitensi possano esercitare un impatto positivo sul consumatore americano, in qualche modo compensando l’effetto restrittivo (sugli Stati Uniti) della rivalutazione del dollaro, che per il resto del mondo è invece equivalente ad una espansione monetaria. E’ peraltro verosimile che un dollaro forte possa rinviare la fase dei rialzi dei tassi ufficiali da parte della Fed. Il rafforzamento del dollaro ha peraltro indotto una ulteriore riduzione delle attese inflazionistiche, espresse dai breakeven inflation rates dei titoli di stato indicizzati all’inflazione.
E’ quindi verosimile, al momento, ipotizzare che il violento movimento a cui abbiamo assistito in settimana sia in prevalenza di tipo tecnico, con la riduzione generalizzata di posizioni di rischio che avevano raggiunto consistenze importanti, grazie al periodo protratto di volatilità eccezionalmente bassa. L’aspetto fondamentale del movimento, per contro, può essere rinvenuto nelle ormai pluriennali delusioni sulla crescita, e sulle continue revisioni al ribasso delle previsioni ad essa relative.
Sul mercato dei titoli di stato, la settimana ha visto il rally dei paesi sviluppati core, con le minute della Fed piuttosto concilianti e dati macro peggiori delle attese per Regno Unito e (soprattutto) Germania. Ciò ha causato importanti flessioni dei rendimenti, soprattutto negli Stati Uniti ed in Regno Unito.
Sui mercati azionari, le perdite della settimana hanno condotto gli indici globali ad azzerare i guadagni da inizio anno. Gli Stati Uniti sono l’unico mercato che conserva un piccolo segno positivo, anche se questa settimana l’indice S&P ha perso il 2% e dista circa il 5% dal recente massimo storico. Circa la presenza di ulteriore potenziale di ribasso sui mercati azionari, riguardo gli Stati Uniti un supporto potrà venire dal livello molto conservativo delle stime di crescita degli utili per azione, anche se c’è attesa per le valutazioni che le aziende daranno circa l’impatto sui propri conti della forza del dollaro.
Sul mercato delle obbligazioni societarie, la settimana ha visto un ulteriore allargamento, in particolare per il comparto High Yield, in conseguenza dei timori per la crescita e di deflussi di portafoglio, mentre l’investment grade resta molto stabile ma appare comunque a rischio a causa del posizionamento ancora pesante degli investitori.
Sul mercato dei cambi, dopo tre mesi di avanzate, il Dollar Index e la volatilità si sono stabilizzati. E’ tuttavia al momento difficile ipotizzare ampi ripiegamenti del dollaro, che pure si trova in evidente condizione di ipercomprato, perché la flessione dei rendimenti sul biglietto verde si accompagna alla persistente debolezza ed incertezza cinese ed all’andamento fortemente negativo delle materie prime, che impedisce quindi alle valute dei paesi produttori di mettere a segno forti recuperi. Importante sarà quindi lo statement del FOMC, il prossimo 29 ottobre.
In settimana, nuovo calo del 2,5% in dollari per le materie prime, ancora una volta guidate al ribasso dall’energia, col Brent sotto i 90 dollari al barile e prossimo ai minimi degli ultimi quattro anni. La debole domanda fisica, soprattutto dall’Asia e l’offerta crescente hanno costretto i produttori a tagliare i prezzi per riuscire a vendere il proprio greggio. Continua a sorprendere il fatto che l’Opec non abbia ancora tagliato la propria produzione, forse per timore che le elevate incertezze in Medio Oriente possano finire col causare interruzioni di offerta. Qualunque sia la motivazione, cresce la probabilità che nell’Opec si creino tensioni che potrebbero sfociare in una guerra dei prezzi. Da rilevare che il calo dei prezzi del greggio tende a rendere meno conveniente l’estrazione di shale oil.