Ieri sui giornali italiani è apparsa la notizia sulle nuove carte depositate dalla Procura di Trani e relative al processo contro le agenzie di rating S&P e Fitch, che si aprirà il 5 marzo, accusate di “aver manipolato il mercato generando il panico e alimentando speculazioni ai danni del nostro Paese”. Nientemeno. Ora la procura di Trani ha “scoperto” un’altra nefandezza da komplottone carpiato contro l’Italia: Standard & Poor’s diventa il killer, e Morgan Stanley il mandante. Abbiamo inventato un sottogenere letterario entro il ricchissimo filone della cospirazione. Il problema è non solo e non tanto la procura di Trani, ma la stampa italiana. Tanto per cambiare.
In occasione di quel downgrade, l’Italia dovette chiudere un contratto con Morgan Stanley che prevedeva la clausola di estinzione anticipata in caso di declassamento del debito sovrano italiano, cosa che poi avvenne. Quella circostanza determinò un esborso di 2,5 miliardi per il nostro paese. E fin qui, shit happens, verrebbe da dire. Non per la Procura di Trani, però. La quale sostiene che, poiché Morgan Stanley era “legata” a livello azionario a McGraw Hill, che è la parent company di S&P, ecco la pistola fumante del “dolo puro informativo” dell’agenzia. E non solo: lo stato italiano pagò “senza batter ciglio” la risoluzione del contratto, signora mia.
Da dove cominciamo? Dall’assetto proprietario di McGraw-Hill, e dai suoi “legami” con Morgan Stanley. Intanto, è utile sapere che l’editore McGraw-Hill è una vera public company, cioè è posseduta da una pluralità di investitori, ma soprattutto accade che questi investitori siano fondi comuni d’investimento. Cioè entità che operano per conto terzi, non per conto proprio. Ad esempio, ad oggi il primo azionista è Fidelity Management & Research, con quasi il 9%, poi c’è Vanguard (il mega gestore di fondi passivi) con quasi il 6%; poi c’è BlackRock col 5,35%. Morgan Stanley possiede oggi il 3,85% di McGraw-Hill, e per la quasi totalità questo possesso è spalmato su propri fondi comuni. In questi anni questi assetti proprietari non sono cambiati in modo rilevante, tra l’altro.
Duole quindi segnalare alla Procura di Trani ed ai giornali italiani che non di “proprietà” si tratta, ma di “conto terzi”, cioè di posizioni detenute su fondi comuni. Alcuni di questi fondi comuni di Morgan Stanley, tra le altre cose, avevano in pancia titoli di stato italiani all’epoca dell’esplosione dello spread, ed hanno subito le perdite, pur se sempre per “conto terzi”. Per questo motivo il sottotitolo del pezzo del Corriere online, che trovate qui sotto, è una pura follia, per essere gentili, perché non fu l’agenzia di rating a guadagnare i 2,5 miliardi, e men che mai risponde al vero che l’agenzia fosse “controllata” da Morgan Stanley. E veniamo alla seconda accusa, questa volta diretta alle autorità italiane: in sostanza, non aver impugnato la clausola di estinzione anticipata del contratto, attivata da Morgan Stanley dopo il declassamento di luglio 2011.
E perché quel contratto avrebbe dovuto essere impugnato? Secondo il Corriere (che immaginiamo citi le carte della procura)
Malgrado quel declassamento fosse ritenuto dagli esperti ingiusto. Nonostante fossero già iniziate le indagini sui possibili interessi speculativi dell’agenzia di rating S&P, finite poi con un rinvio a giudizio di alcuni dirigenti, attualmente sotto processo a Trani.
Ah, beh, gravissimo, signora mia. C’è l’apertura di un fascicolo da parte di una procura italiana, non c’è ancora non solo uno straccio di sentenza di primo grado (che non sarebbe comunque bastata), ma neppure uno straccio di rinvio a giudizio (all’epoca). Che avrebbe dovuto fare, il Tesoro italiano? Spararsi nei piedi ed in altre parti anatomiche e dire, in perfetta modalità levantino-sudamericana “non ti pago, perché c’è sotto un gombloddo”? E infatti questa è la risposta della responsabile della direzione debito pubblico del Mef, Maria Cannata:
«Quando una cosa è così chiara e netta lo Stato non può permettersi di dire: “Vabbé, adesso vedo se ti applico la clausola o no”. Reputazionalmente sarebbe deleterio. È come se uno ricusasse un giudice»
Già. Sarebbe, ripetiamolo, levantino-sudamericano, a queste condizioni e con questo pretesto. Però non temete, cari complottisti d’Italia: pare che agli atti sia allegata una nuova pistola fumante, come riporta Repubblica:
Agli atti – a quanto si apprende – c’è anche un particolare: quando il Mef liquidò nel 2011 i 2,5 miliardi a Morgan Stanley, ai vertici della banca Usa c’era Domenico Siniscalco, prima ex direttore generale del Tesoro e poi ministro dell’Economia italiano.
E qui, pur avendo una certa sensibilità per conflitti d’interesse e sliding doors, facciamo una fatica enorme a cogliere in che termini ciò possa rilevare riguardo l’estinzione anticipata di un contratto stipulato dal Tesoro con Morgan Stanley, in cui era stata scritta quella clausola. A meno che quel contratto fosse stato stipulato proprio durante il periodo in cui Siniscalco era ministro del Tesoro, non sappiamo. Ma anche in quel caso, ribadiamolo: Morgan Stanley non controllava la controllante di S&P, era semplicemente presente in essa attraverso il conto terzi dei propri fondi comuni. Che di quel downgrade, e della liquidazione di quei 2,5 miliardi, non hanno tratto alcun beneficio.
Sappiamo che queste nostre confutazioni cadranno nel vuoto, e che in queste ore i media traboccano di teorie complottistiche, quindi diciamo solo: divertitevi, con questo processo. Noi speriamo che la Procura di Trani abbia altri, ben alti, elementi a suffragio dell’impianto accusatorio. Lo diciamo, in ordine di rilevanza: per il bene della Procura di Trani, della magistratura italiana, dell’Italia. Però, ribadiamolo: questo titolo e sottotitolo del Corriere sono inescusabili, e rasentano la follia.