Conti pubblici argentini sempre più in rosso. Il primo trimestre si è chiuso con un deficit primario di 32,4 miliardi di pesos, pari a 3,6 miliardi di dollari Usa, contro un piccolo avanzo primario segnato nell’intero 2014. Il deficit, rispetto allo stesso trimestre del 2014, è triplicato. Ciò accade essenzialmente per un motivo: il ciclo elettorale di spesa pubblica. Persino in un paese dove i conti pubblici sono uno scherzo anche lontano da appuntamenti elettorali.
La spesa pubblica è aumentata in marzo del 44% annuale. Oltre a spesa in conto capitale per progetti infrastrutturali, anche la spesa sociale ha avuto un’espansione tendenziale del 40%, alimentata soprattutto dai sussidi per trasporti ed energia e dalla rivalutazione delle pensioni, con decorrenza 1 marzo, per “indennizzare” almeno parzialmente i pensionati della elevata inflazione. Nel frattempo la dinamica delle entrate sta rallentando a causa della crisi economica, ed è ora molto staccata da quella della spesa pubblica: a giugno, secondo l’istituto statistico nazionale argentino (quindi prendete i dati con enorme beneficio d’inventario) le entrate sono cresciute su base annua di solo il 30%.
Che si fa, quindi, per colmare il deficit? Beh, in astratto si dovrebbe avviare un processo di aggiustamento. Ma sono concetti così crudeli e “tedeschi”, signora mia. Quindi, meglio continuare ad iniettare domanda nel sistema economico, anche e soprattutto nelle fasi espansive (che sono ormai irrimediabilmente alle spalle dei poveri argentini, peraltro), fregandosene della regola aurea che chiede di avere una politica economica anticiclica. Ma, come disse la Presidenta, hasta i consumi siempre. E quindi, per finanziare il deficit ci si industria con trasferimenti dalla banca centrale (che sono in ampia parte monetizzazione diretta di deficit) o requisendo la liquidità della Sicurezza Sociale.
Nel frattempo il paese, così orgogliosamente sovrano, subisce un paio di pesanti eventi avversi: uno fuori dalla propria capacità di controllo, l’altro come effetto collaterale dell’illusione di aver scoperto la pietra filosofale del terzomondismo d’accatto. Il primo è il crollo della esportazione di veicoli verso il Brasile, causato dalla recessione di quel paese, che sta faticosamente attuando un processo di aggiustamento dopo anni di spesa allegra e prociclica per mano di Dilma Rousseff. Considerando che l’80% delle esportazioni argentine finiscono in Brasile, diremmo che c’è un problema.
L’altro influsso negativo sulla manifattura argentina (quello sfizioso, diciamo) viene dall’acciaio, la cui produzione è calata ad aprile del 23% annuale. Secondo i rappresentanti del settore, ciò avviene non solo per l’andamento recessivo dell’auto ma anche e soprattutto per la concorrenza dell’acciaio cinese, le cui importazioni nella regione sono aumentate del 29% annuale nel primo trimestre. Sono cose che capitano, quando si entra in accordi di credito commerciale e finanziario con un paese che non è la Onlus del pianeta, come invece continuano a credere i terzomondisti d’accatto, ma ha precise esigenze ed obiettivi strategici di penetrazione commerciale sui mercati regionali globali.
Comunque, no problem: il paese si deindustrializza per mano di una politica di cambio demenzial-criminale, a sua volta frutto dell’esigenza di mantenere sempre elevati i consumi, (Cristina dixit)? In quel caso stampiamo e chiudiamo il deficit. Che problema c’è?