Reddito di cittadinanza, una riforma rinunciataria

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

più che all’abolizione del Reddito di Cittadinanza, abbiamo assistito all’abolizione di Pasquale Tridico, suo principale teorico, da presidente dell’Inps.

Per il resto, la riforma del RdC, disposta dal decreto legge 48/2023, come molti hanno già osservato, è nella sostanza una copia sbiadita del medesimo RdC: qualcosa di più del vecchio Rei (reddito di inclusione), qualcosa di meno del RdC.

Cosa si riduce

Nel “meno” vi saranno, prevalentemente, un numero ridotto di beneficiari, un numero ridotto del tempo di durata (che da 18 mesi continuativamente rinnovabili, regredisce a primi 18 mesi rinnovabili per successivi 12 – non si è compreso se rinnovabili ad libitum – o, nel caso degli “occupabili” a soli 12), una quantità ridotta (ma nemmeno ridottissima: 7 miliardi circa, a fronte di una spesa assestata di circa 8), di finanziamenti.

Certo, vi sono alcuni aspetti tecnici tali da determinare differenze tra “vecchio” RdC e nuovo strumento misto Assegno di inclusione/Supporto per la formazione e il lavoro.

L’impostazione generale, tuttavia, cambia poco, anche se esiste una differenza molto profonda tra Rdc e Adi: una maggiore sincerità di fondo nel regolare lo strumento, rinunciando, in gran parte (non in toto) all’ambizione di agganciare assistenza a politiche attive per il lavoro.

Come dice, Titolare? La confusione tra assistenza sociale e politiche del lavoro è stata uno dei principali vizi del RdC? Innegabile.

Ci si sarebbe, dunque, dovuto aspettare un intervento di riforma capace di distinguere adeguatamente politiche sociali da misure di regolazione e potenziamento di quel mondo, sconosciuto ai molti, delle “politiche attive per il lavoro”, in modo da rendere finalmente efficaci proprio queste ultime.

La riforma, invece, pare molto rinunciataria: preso atto che i miracoli dell’immaginifica app e dell’ipergalattica piattaforma di incontro domanda/offerta provenienti dal Mississippi non si sono realizzati, imposta l’intervento sui poveri e sui lavoratori poveri principalmente come assistenza: il lavoro è una subordinata incidentale.

la regia ai Servizi sociali comunali

Non è un caso che, a parte la domanda all’Inps (da presentare con un sistema on line all’apparenza abbastanza complesso, specie per il livello molto basso di competenze digitali dei potenziali fruitori del beneficio), saranno soprattutto i servizi sociali dei comuni a farsi carico dei nuclei richiedenti. E saranno sempre i servizi sociali ad inviare gli “occupabili” verso i centri per l’impiego.

Per fare cosa? Anche in questo caso, la riforma appare di minore ambizione e cabotaggio. Eliminata la piattaforma digitale dei miracoli e, conseguentemente, fatto a meno della figura dei navigator, il nuovo sistema non immagina specifiche modalità per attivare i lavoratori ed inserirli nel mondo del lavoro. Molto banalmente, agli “occupabili” saranno assegnate le iniziative di politica attiva esistenti: l’adesione al Gol (Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori), oppure (citiamo il decreto) “iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra iniziativa di politica attiva o di attivazione, comunque denominate”. Insomma, andrà bene tutto quel che si potrà raccattare in qualche modo in giro.

La parte del leone, ovviamente, la farà proprio il Gol, visto che fino al 2026 sarà nella sostanza la misura di politica attiva del lavoro standard. Come dice, Titolare? Dell’aggancio in fondo inevitabile tra politiche di inclusione e Gol Le pare di aver letto qualcosa tra questi pixel? Proprio così: segno che, a meno di cambiamenti realmente radicali, le strade per intervenire nel mercato del lavoro sono poche e strette.

La riforma, comunque, cede ad alcune fascinazioni che è difficile abbandonare. Quella, per esempio, della piattaforma digitale. Come evidenziato sopra, non si pretende più di attribuirle supersoniche capacità di incontro domanda/offerta, ma si torna sull’eterno argomento del sistema informativo unico. Che, poi, unico non sarà: il decreto si diffonde nel rinvio a successivi decreti governativi finalizzati a fissare le “regole tecniche” della “cooperazione applicativa”, cioè il modo per far colloquiare le decine di sistemi informativi regionali con, appunto, la piattaforma “unica”.

Si vedrà se davvero si riuscirà in un intento da sempre annunciato, ma fin qui mai realizzato, quello, appunto, della creazione di una piattaforma nazionale, nella quale gestire le politiche del lavoro, ivi comprese le domande di lavoro delle imprese. Il d.l. 48/2023 da questo punto di vista introduce una previsione interessante: le imprese potranno avvalersi degli incentivi connessi alle assunzioni dei percettori esclusivamente nel caso in cui inseriranno “l’offerta di lavoro nel sistema informativo SIISL”, cioè appunto la piattaforma regolata dal decreto.

Bisognerà, ovviamente, verificare quanto interesse avranno le imprese a manifestare i dati della propria domanda di lavoro, anche in relazione all’attrattività degli incentivi e, ovviamente, all’appeal lavorativo dei beneficiari. Utilizzare una piattaforma richiede l’autenticazione, la conoscenza e l’utilizzo delle regole tecniche, probabilmente il rispetto di modi e termini che saranno definiti dai decreti attuativi: è chiaro che le imprese se ne avvarranno solo se davvero ne varrà la pena.

Ovviamente, le imprese saranno portate ad inserire la domanda di lavoro nel sistema in misura direttamente proporzionale all’interesse ad assumere i beneficiari “occupabili”.

Un equivoco chiamato occupabilità

Ma, questo rimane il punto dolente principale del sistema. Il d.l. 48/2023 resta prigioniero dell’idea che la mitica “occupabilità” sia una condizione soggettiva legata all’età: avere tra i 18 e i 59 anni ed essere “attivabili” al lavoro.

Si confonde l’occupabilità con la “spendibilità” nel mercato del lavoro, due aspetti totalmente diversi. È evidente che ogni disoccupato, essendo privo di lavoro, è potenzialmente occupabile. Dovrebbe risultare altrettanto chiaro che, però, è poco spendibile, e dunque di interesse per i datori, il disoccupato con bassa scolarità, assenza o carenza di esperienza lavorativa, forte distanza dalla sede di lavoro, mancanza di mezzi di trasporto privato.

Non si è preso sufficientemente cognizione che oltre il 70% dei beneficiari del RdC rientra tra coloro che risultano pochissimo spendibili nel mercato del lavoro. Non diversa sarà la situazione di chi otterrà l’Adi.

Il nuovo sistema, come detto, piega di più verso la componente assistenziale, abbandonando le velleità di inserimento lavorativo: infatti, mancano interventi sulle politiche attive e si lascia l’eventualità dell’incontro tra domanda e offerta agli incentivi alle imprese e ad altre due misure, cioè la “condizionalità” e la formazione.

Sulla condizionalità, consistente nel condizionamento della percezione del beneficio al compimento di azioni alle quali i percettori saranno obbligati, il d.l. 48/2023 è piuttosto innovativo, ma abbastanza contraddittorio.

Come detto, la misura è maggiormente di carattere sociale: impatta, infatti, prevalentemente su nuclei familiari in cui siano presenti minori, disabili o over 60, soggetti dichiarati “non occupabili”. Tuttavia, se nel nucleo sono presenti “occupabili”, l’intero nucleo decade dal beneficio, nonostante la più chiara sua finalità assistenziale, qualora l’occupabile” non sottoscriva il patto di servizio personalizzato per il lavoro, o non partecipi, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra iniziativa di politica attiva o di attivazione, comunque denominate, nelle quali è inserito dai servizi per il lavoro, secondo quanto previsto dal patto di servizio personalizzato, o non accetta, senza giustificato motivo, una offerta di lavoro.

Nel precedente sistema del RdC, la mancata sottoscrizione del Patto di servizio o l’assenza alla prima convocazione avrebbe comportato la decurtazione di una mensilità e solo dopo la reiterazione di questi comportamenti, la decadenza. La nuova misura è molto più drastica: ogni mancanza causa la decadenza dal beneficio, anche se la mancanza è addebitabile al convivente “occupabile” e anche se la misura abbia connotazioni maggiormente assistenziali. Non il massimo della coerenza interna.

Altro problema irrisolto: l’offerta “congrua”, non più qualificata come tale, ma, comunque, quel tipo di offerta di lavoro il cui rifiuto comporti appunto la decadenza.

Il lavoro non potrà essere rifiutato, appunto a pena di decadenza, se a tempo indeterminato e offerto senza limiti di distanza nell’ambito del territorio nazionale; o se a tempo pieno o a tempo parziale non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno; o se la retribuzione non è inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi; o se a tempo determinato, anche in somministrazione, qualora il luogo di lavoro non disti più di 80 chilometri dal domicilio del beneficiario.

La vista dalle imprese

Da un lato, occorrerebbe che i datori formalizzassero in modo pubblico dati sulla proposta di lavoro che, generalmente, non hanno mai alcuna intenzione di manifestare. Dall’altro lato, il legislatore non ha minimamente descritto le modalità del flusso necessario per giungere alla decadenza. Le domande sono: come fa il datore a proporre il lavoro? Deve avvalersi della piattaforma digitale? È dalla piattaforma che l’Inps ricava la notizia del rifiuto della proposta di lavoro? A chi deve presentare le giustificazioni per il rifiuto il beneficiario: all’Inps o al datore proponente? Quali strumenti istruttori ha l’Inps o chiunque per comprendere nel merito la fondatezza delle motivazioni del rifiuto?

In ogni caso, resta l’approccio velleitario formatosi negli ultimi mesi del 2022: immaginare che un’offerta di lavoro a chilometri di distanza, con tutti i problemi che comporta, sia causa di decadenza appare oggettivamente poco sensato. Non solo perché le imprese serie cercano il più possibile lavoratori in un raggio chilometrico limitato, consapevoli che l’eccessiva distanza nuoce alla fidelizzazione, ma soprattutto non si tiene conto che il lavoratore “occupabile” del nucleo con minori, disabili e anziani, ha inevitabilmente carichi di cura: estirparlo dal nucleo con un trasferimento semi coatto a centinaia di chilometri di distanza è totalmente incoerente col sistema.

Terza misura? La formazione. Che spetterà in particolare ai nuclei poverissimi, ai quali non sia possibile attribuire l’Adi. Ai loro componenti spetterà, quindi, il Supporto alla formazione, un finanziamento fino a 350 euro al mese per 12 mesi, ma limitato ai periodi nei quali il beneficiario sia inserito in percorsi formativi.

La formazione è certamente utilissima e necessaria. Ma, se la si scollega da percorsi di inserimento lavorativi, se, cioè, la formazione non abbia ad oggetto competenze, capacità ed attività, con programmi, laboratori ed addestramenti, direttamente fissati dalle aziende e gestiti dagli enti di formazione in strettissimo collegamento con le aziende, finirà per restare ad alto rischio di autoreferenzialità. La formazione è solo uno momento del complesso sistema di politiche attive che andrebbe allestito, in particolare per le persone più deboli nel mercato del lavoro.

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