Cercasi Copernico disperatamente

E quindi, per l’ennesima volta, siamo a commentare la promessa di taglio delle tasse sulla prima casa. Questa volta è il turno di Matteo Renzi a mettersi in scia al suo antenato Silvio Berlusconi, incluse frasi di circostanza sulla portata “storica” della manovra, che “altri” non sono riusciti a realizzare. In omaggio, stuoli di cocoriti che sparavano a zero sull’avventurismo fiscale di Berlusconi e che oggi invece non trovano di meglio che plaudere al logoro espediente di un leader che sta perdendo colpi nei sondaggi, a tutto vantaggio di piccoli demagoghi che rappresentano solo il termometro della febbre che divora un paese di creduli in stato terminale.

Renzi ha dunque elaborato l’ennesimo cronoprogramma, che prevede per il 2016 l’eliminazione della tassazione sulla prima casa, per il 2017 un non meglio precisato intervento su Ires ed Irap, e nel 2018 si metterà mano alla curva Irpef “ed alle pensioni”. Anche qui non è chiaro cosa si intenda, ma è chiarissimo che il 2018 è anno elettorale. E del resto, se la Lega può fare campagna elettorale brandendo la flat tax del 15%, voi capite che Renzi con l’abolizione della Tasi sulla prima casa appare uno statista responsabile.

Al momento le coperture mancano, come da tradizione italiana prima che renziana. Pare che la Tasi prima casa costi 3,5 miliardi; sommando l’Imu sugli imbullonati e l’Imu agricola, il conto totale per il prossimo anno arriva a circa 5 miliardi. Occorre ricordare che, sempre nel 2016, ci sono clausole di salvaguardia da disinnescare per 16 miliardi di euro, oltre a dover finanziare i rinnovi contrattuali del pubblico impiego, l’indicizzazione delle pensioni dopo la sentenza della Consulta (ad oggi c’è copertura solo per l’anno corrente), un ipotetico piano di rilancio degli investimenti (per il quale, attendendo il Piano Juncker, che non arriverà, c’è sempre l’ipotesi di scassare la Cassa Depositi e Prestiti), la “flessibilità” nei pensionamenti, per la quale armate di termiti sociali e solidali sono già accampate in riva al fiume, la copertura per circa 700 milioni della bocciatura comunitaria della reverse charge nella grande distribuzione e last but not least l’ipotesi di prorogare la decontribuzione per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Perché la realtà, come sempre, è particolarmente maldisposta nei confronti del nostro paese e dei suoi premier pro tempore.

Quante caramelle, avete visto? Dal versante delle coperture abbiamo poco e nulla. Una spending review da dieci miliardi, affidata a Gutgeld & Perotti, entro la quale dovrebbe esservi posto per la “razionalizzazione” delle tax expenditures, cioè delle agevolazioni fiscali sotto forma di detrazioni d’imposta e deduzioni dall’imponibile. Se ne parla da un lustro e più, prima o poi qualcosa accadrà. Tenendo presente che, anche ispirandosi ad equità ed efficienza, l’azione sulle tax expenditures è a tutti gli effetti aumento di imposizione, che produce quindi effetti distributivi. Se considerate che quest’anno la spending review, o meglio i tagli lineari a danno degli enti locali, ha prodotto uno psicodramma collettivo per importi inferiori a quello previsto per il prossimo anno, e che è tracimata in aumenti di imposte locali, avete l’idea dell’impresa che ci attendeva, anche senza le ultime caramelle cariogene di Renzi.

Il quale Renzi ha precisato che la manovra non verrà fatta a debito, e restando “entro i parametri di Maastricht”. Perché Renzi ha questo, di bello: si fa capire pure dalla casalinga di Fiesole, anche se “il trattato di Maastricht” è stato affiancato da ben altre metriche, più invasive, come quella del pareggio strutturale di bilancio, il cosiddetto obiettivo di medio termine (MTO), per il quale l’Italia ha già ottenuto un bello sconto di quattro decimi di punto percentuale di Pil, come premio politico alle “riforme”.

Ci sono due modi, per raggiungere l’obiettivo di alleggerimento fiscale di Renzi. Il primo è la crescita, ovviamente. Che produce aumenti spontanei di gettito, su cui prontamente si gettano le termiti social-solidali, dietro lo stendardo della cravatta a strisce orizzontali di Cesare Damiano, al grido di “tesoretto!”. Per il prossimo anno non ci sono tuttavia previsioni di accelerazione della crescita, che dovrebbe essere intorno a 1,5-1,6%, anche se si leva qualche voce dissonante tipo quella di Prometeia, che ha limato di 0,3% la propria stima, a 1,3%. Se il gettito non aumenta per via spontanea, quindi, serve fare deficit. Considerando che le previsioni accreditano all’Italia nel 2016 un deficit-Pil di 1,8%, che a chi scrive pare ottimistico, ecco che Renzi invoca “il rispetto di Maastricht”, cioè del 3%. Con un complesso algoritmo, si tratterebbe di 1,2% di Pil, cioè circa 18-19 miliardi. Ce ne sarebbe di che pagare caramelle e biscottini senza neppure dannarsi troppo l’anima sulla spending review, a ben vedere.

Si, ma per quale motivo la Ue dovrebbe consentire all’Italia di aumentare il deficit? E qui Renzi risponde “perché consente alla Francia, da sempre, di fare quello che vuole col deficit!”. Come argomentazione appare un po’ gracile, a dirla tutta. La Francia è il barboncino della Germania, ha un rapporto debito-Pil di circa 30-35 punti percentuali inferiore al nostro, ha un costo del debito che resta incredibilmente basso e non lontano da quello tedesco perché i mercati la considerano la chiave di volta della costruzione europea. L’Italia non è nulla di tutto ciò. Quindi serviranno argomenti un filo più robusti. E quanto al rapporto debito-Pil, non vorremmo che Renzi la stesse facendo facile mettendo all’incasso le “privatizzazioni” di Poste, Ferrovie ecc. Dovrebbe ricordarsi che quel programma è già stato ridimensionato, e continua a non apparire in forma smagliante.

Quando c’è crescita, c’è tutto. Il gettito fiscale aumenta spontaneamente e genera risorse aggiuntive che governi saggi saprebbero come e dove allocare. Quanto al rapporto debito-Pil, vale la regola aurea: se il Pil nominale cresce più del costo medio del debito pubblico, la dinamica dell’indebitamento può essere piegata con bassi avanzi primari, anche in presenza di elevato debito. Diversamente, il deterioramento prosegue. E l’Italia, al momento, non è ancora nella fase virtuosa della traiettoria.

Poiché conosciamo i nostri polli, questa è la sintesi: Renzi tenterà di negoziare altro deficit con la Ue, al grido di “e gli altri, allora?”. Se mai lo ottenesse, e non è chiaro in cambio di quali “riforme”, avremo nuovo debito, che è la somma pluriennale di più deficit. Forse questo concetto Renzi non lo ha ancora afferrato, o forse pensa di poter piantare una zeppa nella costruzione attraverso le “privatizzazioni” o la Cassa Depositi e Prestiti. Nel frattempo, tenete d’occhio il differenziale tra costo medio del debito pubblico e crescita del Pil nominale. Non vi serve altro, per capire se andremo a sbattere o se riusciremo ad evitare gli scogli. Di certo non vi serve il presidente del consiglio più furbo del reame. E auguri a Pier Carlo Padoan. Ne avrà un disperato bisogno. Se poi volete tornare sulla terra, ricordate che questo è il governo che ha rinviato la riforma dell’imposizione sul reddito dell’imprenditore perché non è riuscito a trovare circa 800 milioni per finanziarla. Dove diavolo sei, Copernico, quando abbiamo bisogno di te?

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