(* Post tecnico: a volte servono anche quelli, per poterla buttare in caciara in altri momenti)
Un recente paper di Josh Mason e Arjun Jayadev tenta di analizzare la crescita del rapporto debito-reddito delle famiglie statunitensi dalla Grande Depressione ai giorni nostri. Tale rapporto può (anzi, deve) essere scomposto nelle sue grandezze costitutive: indebitamento primario, livello dei tassi d’interesse nominali, crescita reale ed inflazione. Questi sono peraltro gli elementi costitutivi del più noto rapporto debito-Pil usato a livello di conti pubblici nazionali.
Il risultato della ricerca è che la maggior parte dell’aumento del rapporto debito-reddito nell’ultimo trentennio può essere spiegato con la classica “dinamica di Fischer”, il risultato meccanico di tassi d’interesse nominali in aumento e processo di disinflazione post anni Ottanta. Il paper è utile sia per confutare in parte la chiave di lettura di una propensione all’indebitamento sempre e comunque elevata da parte delle famiglie americane sia per ricordare che, a livello di conti pubblici, è fondamentale leggere le variazioni del rapporto debito-Pil alla luce delle determinanti di tale rapporto, per evitare conclusioni affrettate e moralistiche sulla dissipatezza fiscale dei paesi.
Riguardo il leverage, quindi, occorre tenere a mente questa fondamentale relazione, che dovrebbe essere spiegata a politici e giornalisti almeno un paio di volte al giorno:

In essa, b è il rapporto debito-Pil, d è il deficit primario espresso in percentuale del Pil, i è il tasso d’interesse nominale, g è il tasso di crescita reale del Pil e pi-greco è l’inflazione. Quindi, un aumento del tasso d’interesse o una caduta del Pil possono condurre ad un rapporto debito-Pil crescente, anche se il governo tiene il punto su spese e tasse; per contro, un governo che ha un deficit nei conti pubblici può ancora riuscire a ridurre il rapporto debito-Pil usando l’inflazione se i tassi nominali restano bassi, come ad esempio è successo negli Usa (e non solo) nel secondo Dopoguerra.
Come è stato calcolato da Willem Buiter ed altri, la caduta di ben 90 (novanta) punti percentuali del rapporto debito-Pil americano nei decenni del Dopoguerra può essere ricondotta soprattutto a tassi d’interesse nominali inferiori al tasso di crescita nominale. Per effetto di questa relazione, durante quel periodo gli Stati Uniti ebbero complessivamente un deficit di bilancio, eppure il rapporto debito-Pil crollò. Ecco quindi subito qualcosa su cui riflettere per quanti pensano che il pareggio di bilancio risolva sempre e comunque i mali del mondo. Non è così: o meglio, potrebbe non essere così in presenza di alcune condizioni particolari, come il noto rapporto tra tassi d’interesse nominali e tassi di crescita nominali del Pil.

Tornando ai risultati dello studio del rapporto debito-reddito per le famiglie americane, il paper giunge alla conclusione che l’aumento degli ultimi trent’anni può essere attribuito alle componenti di non-indebitamento, cioè alla dinamica di Fischer. Gli autori realizzano un grafico di controfattuale, in cui cioè si ipotizza che se tassi d’interesse, crescita ed inflazione nel periodo 1981-2011 fossero rimasti al livello medio dei precedenti trent’anni, allora le sole decisioni di spesa delle famiglie avrebbero prodotto nel 2010 un rapporto debito-reddito ben inferiore a quello del 1980 (linea tratteggiata rossa). Questo si può intuire: pensate alla forte disinflazione della Fed di Paul Volcker a inizio anni Ottanta, ed alla recessione che essa indusse: questo elemento, da solo, ha causato un aumento del rapporto di indebitamento, senza che le famiglie avessero fatto ricorso ad ulteriore credito.
Nel paper è contenuta anche una tabella (riprodotta qui sotto) che mostra la variazione del rapporto debito-reddito delle famiglie dal 1929 al 2010, suddiviso nelle componenti meccaniche “à la Fischer” e per periodi di “omogeneità storica”. Se osservate il periodo 2007-2010 (la “Grande Recessione”) vedrete che c’è un avanzo primario (cioè le famiglie risparmiano) che abbatte del 6,7 per cento medio annuo lo stock di debito, al quale tuttavia si contrappone un elevato livello di tassi d’interesse, che contribuiscono ad alzare nel periodo il rapporto d’indebitamento del 7,9 per cento l’anno. Inoltre, se osservate il periodo 2000-2007, scoprirete che è quello il vero momento della corsa al debito delle famiglie: un aumento medio annuo del leverage del 5 per cento, al quale contribuisce un deficit primario (cioè l’eccedenza delle spese sui risparmi) per il 3,3 per cento medio annuo. Per trovare un aumento “genuino” della propensione al debito da parte delle famiglie americane occorre risalire al periodo dal 1946 al 1964, con un più 2,3 per cento medio annuo di deficit primario.

Tornando al rapporto di leverage su scala macro, cioè quella dei paesi, come si può ridurre il debito-Pil? Semplice, si fa per dire: con un aumento dell’avanzo primario (cioè della differenza tra entrate e spesa pubblica al netto degli interessi), e/o con un aumento della crescita economica reale. Oppure con tassi d’interesse nominali tenuti in qualche modo bloccati dalle banche centrali sotto il livello dell’inflazione, con una sorta di financial repression. Non essendo in Giappone, e non avendo quindi (ancora) deflazione, l’esperimento potrebbe anche riuscire. Quello che conta è capire che, dietro al rapporto debito-Pil ed alla sua dinamica, non ci sono solo governi dalle mani bucate ma una pluralità di variabili.
Se stiamo attuando una manovra d’austerità, che nel breve termine deprime la crescita fino a renderla negativa, e se i mercati ci chiedono altissimi tassi d’interesse perché non si fidano di noi, e se addirittura tentiamo una deflazione per recuperare competitività perché siamo in una unione monetaria e quindi non possiamo svalutare il cambio, il nostro rapporto debito-Pil schizzerà alle stelle, anche se siamo morigerati e stiamo tagliando tutto quello che può essere tagliato. E’ questo il motivo del fallimento delle tabelle di marcia verso il pareggio di bilancio imposte ai PIIGS. Meditate, gente, meditate.