(Questo è il secondo di tre post dedicati ai “favori” che la Germania avrebbe ricevuto in tema di aiuti di stato dalla Commissione Ue. Il titolo del post è evidentemente un’esca acchiappagonzi. Dovreste comunque sentirvi riconoscenti per il posizionamento di questo disclaimer-spoiler in testa al post anziché in coda.)
Mentre in queste ore il nostro premier pare intento ad esibirsi in una versione geneticamente mutata di grillino con qualche sfumatura no-euro, può essere utile gettare un occhio a criteri e tecnicalità con cui la Germania ha speso il proprio denaro pubblico per supportare i propri istituti bancari durante la Grande Crisi. Oggi parliamo del programma cosiddetto di Asset Relief.
Come noto, la prima gamba della crisi fu originata dal collasso di Lehman Brothers e coinvolse tutti i prodotti cosiddetti strutturati, cioè obbligazioni complesse che incorporano più opzioni o che sono state costruite secondo criteri di tranching (cioè letteralmente fatte a fette) in funzione delle perdite attese del sottostante. Allo scoppio della crisi degli strutturati, il mercato subì una gelata epocale. Nessuno comprava, i pochi scambi effettuati facevano emergere perdite drammatiche. Le banche si ritrovarono con buchi negli attivi di bilancio che rischiavano di farle affondare.
Fu a quel punto che i governi dei paesi più colpiti dalla calamità (non a caso, quelli le cui banche riciclavano l’imponente surplus commerciale del paese, tu guarda la coincidenza), decisero di intervenire con un programma “lenitivo”, per fornire “sollievo” agli stati patrimoniali delle proprie banche. Serviva espungere i titoli tossici dai bilanci delle banche, e sostituirli con titoli liquidabili e di alto merito di credito. Con titoli pubblici di paesi dalle finanze pubbliche sane, in sintesi. E che fece la Germania?
Un programma di Asset Relief, concordato con la Commissione europea, che funzionava nel modo seguente. Le banche cedevano i propri strutturati ad un veicolo ad hoc (special purpose vehicle) di natura pubblica, ottenendone in cambio titoli a garanzia pubblica. “Che figata, anche noi, anche noi!”, diranno i nostri piccoli patrioti, con gli occhi scintillanti di invidia e cupidigia. Non così in fretta, ragazzi. Per ottenere il via libero europeo, e per minimizzare il costo a carico dei contribuenti tedeschi, si decise questo:
La banca venditrice deve immediatamente abbattere del 10% il valore di libro del titolo strutturato. In seguito, la stessa banca formula la propria ipotesi di “valore economico reale” del titolo medesimo, utilizzando il metodo dei flussi di cassa attesi, secondo criteri stabiliti dalla Commissione europea. Dopo aver ottenuto questo valore (chiaramente di parte), il titolo poi viene valutato da un panel di esperti indipendenti, e da ultimo validato dal supervisore pubblico. Pensate che sia finita qui? Anche no, perché al “valore economico reale” del titolo viene applicata una ulteriore decurtazione per “perdite inattese”, e si giunge al “valore fondamentale”, che è puramente un prezzo “equo” ex ante (fair price).
Ma che accade se il “valore di trasferimento”, cioè il prezzo al quale il veicolo pubblico compra titoli tossici, risulta molto superiore al “valore fondamentale”? Magari in Italia non accadrebbe nulla: si invocherebbe il “fallimento del mercato”, i banchieri porterebbero a casa la loro pagnotta ed i cocci sarebbero dei contribuenti. Nel caso tedesco, per evitare gli aiuti di stato, la Commissione Ue ha imposto la “condivisione degli oneri” (burden sharing), stabilendo che l’eventuale differenza tra prezzo di trasferimento dei titoli tossici e loro “valore fondamentale” debba essere ripagata ogni anno, utilizzando gli utili di bilancio della banca che cede il titolo tossico, e possa essere rateizzata in 20 anni ed anche oltre, in caso di perdite impreviste successive sul titolo tossico ceduto. Per questo servizio, la banca cedente deve pagare allo stato una commissione di garanzia (fee).
A cosa corrisponde, un simile intervento? Ad un aumento di capitale garantito dallo stato, a valere sulle perdite di valore dell’attivo delle banche, rimborsato dalle banche beneficiarie in un ventennio, ed oltre. Da notare che l’importo delle misure di asset relief non equivale ad esborso pubblico immediato a fondo perduto perché di esso è previsto il rimborso, a valere sugli utili delle banche beneficiarie, entro un ventennio. Non è quindi un vero aumento di capitale né una garanzia. Da qui la differente classificazione entro la tripartizione degli aiuti di stato autorizzati (ricapitalizzazione, asset relief, garanzie).
Ingegnoso, non trovate? Ora vi proponiamo un esperimento mentale: ipotizzate di applicare questo schema ai crediti in sofferenza delle banche italiane. Le banche cedono i Non performing loans alla bad bank pubblica, dopo aver immediatamente decurtato del 10% il valore di realizzo netto iscritto a bilancio; la differenza tra prezzo di cessione e prezzo di effettivo recupero del credito viene recuperata a valere sugli utili futuri della banca cedente, entro un ventennio. Forse ai banchieri l’idea non piacerebbe, per la presenza del valore finale di recupero del credito: magari loro vorrebbero preoccuparsi solo del prezzo di cessione alla bad bank pubblica, e farlo pure da soli, senza valutazione indipendente, chissà. Però forse possiamo provare a creare una cosa del genere. Lei che dice, ministro Padoan?
A parte queste elucubrazioni, speriamo di essere riusciti a darvi almeno l’idea di quanto la Germania è stata “aiutata” dalla Ue. A dirla tutta, sono i contribuenti tedeschi ad essere stati aiutati dalla Commissione, che ha risparmiato loro un bel salasso. Ma i nostri sdegnati patrioti stampatori probabilmente non arriveranno ad afferrare il concetto.