Questo mese, nella consueta pubblicazione, l’Associazione bancaria italiana segnala un dato piuttosto interessante, una sorta di margine di interesse “al margine”, cioè la differenza tra il tasso medio praticato sui nuovi finanziamenti e quello medio pagato sui nuovi depositi. Un indicatore che può essere letto come il livello di “onerosità” che il settore dell’intermediazione creditizia esercita sulla società, oltre che (specularmente) come misura della redditività caratteristica di una banca, cioè della sua capacità di intermediare profittevolmente tra soggetti che risparmiano e quelli che hanno bisogno di prestiti. Ma questo numero significa anche un’altra cosa: la conferma della debolezza della “ripresa” di questo paese.
Riguardo alle imprese, Abi segnala quindi che la differenza tra tassi sui nuovi prestiti e quelli sui nuovi depositi si colloca a marzo (mese a cui la rilevazione è riferita) a 91 punti base, aggiungendo che si tratta di
«[…] un valore inferiore ai 141 b.p. della Germania, ai 133 b.p. della Francia ed ai 218 b.p. della Spagna»
Perché questa differenza tra il margine d’interesse “al margine” per le banche italiane e quello delle banche dei paesi con i quali ci confrontiamo? Intanto, pare un’ottima notizia: in Italia le banche pare costino meno all’economia del paese. Ma per quale motivo? Possiamo formulare delle ipotesi, basandoci su una banale analisi qualitativa delle curve di domanda ed offerta. Intanto, se il margine di interesse sulle nuove operazioni è così basso, ciò potrebbe essere effetto di una forte competizione tra banche per catturare nuovi depositi con tassi più alti e/o per allettare i debitori con prestiti a tassi inferiori. Forse è intervenuto qualche cambiamento nel mercato bancario, tale da scatenare la competizione tra istituti per rubarsi quote di mercato? Oppure c’è una forte ripresa della domanda di credito da parte delle imprese, che spinge al rialzo i tassi sui prestiti? Lecito dubitarne.
Più probabile e verosimile che la domanda di credito continui a latitare. Infatti, come si coglie dai dati della stessa Abi,
«A marzo 2016 la dinamica dei prestiti alle imprese non finanziarie è risultata pari a -0,3%»
Ad aprile non è andata meglio, per il macrosettore privato:
«Torna, invece, il segno meno ma sempre molto vicino allo zero, per l’andamento dei prestiti a famiglie e imprese in aprile: (-0,27% annuo)»
E del resto
“Da alcuni mesi c’è un’oscillazione attorno allo zero – commenta il capo economista e Vice dg vicario dell’associazione Gianfranco Torriero – si attende una spinta per tornare su livelli più elevati” (Radiocor, 17 maggio 2016)
Ecco, appunto. Tornando agli impieghi creditizi, se consideriamo che la loro erogazione non può prescindere dalle valutazioni di rischio, e anche che le banche tendono ad accordare fidi ad aziende che non hanno reale necessità di utilizzarli, al fine di abbellire le statistiche di credito, si comprende come questo spread sia la spia della persistente debolezza della domanda di credito, a sua volta derivante dai modesti livelli di attività in atto nel paese.
Le banche stanno subendo forti pressioni sulla loro redditività, nel momento peggiore: quello in cui serve spingere sull’acceleratore delle rettifiche su crediti, e ridurre le sofferenze nette. Il fatto che la congiuntura resti esangue non aiuta il sistema ad uscire dalle sabbie mobili. Ai fini della comunicazione istituzionale del “ruolo sociale” delle banche, questa “buona notizia” (il margine di interesse su nuova produzione nettamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi europei) è in realtà la conferma della persistente debolezza del nostro sistema economico. Al netto di ogni forma di propaganda, ormai stucchevole.