Pubblicati da Inps i dati dell’osservatorio sul precariato, aggiornati al periodo gennaio-aprile di quest’anno. Ve li forniamo senza particolari commenti, perché siamo piuttosto annoiati di osservare arrampicate sugli specchi ed altri equilibrismi che sono (forse) divertenti nella fase iniziale ma divengono stucchevoli se reiterate. I numeri sono quelli che sono, poi siete padronissimi di pensarla altrimenti.
In sintesi, abbiamo la conferma ad nauseam che i sussidi temporanei alle assunzioni a tempo indeterminato non hanno modificato le naturali dinamiche del mercato del lavoro nei numeri di fondo. O forse sì, visto che certamente vi saranno state assunzioni indotte dalla convenienza al margine del minor costo del lavoro, come conferma indirettamente la variazione negativa della produttività per ora lavorata, scesa nel primo trimestre dello 0,2% sul trimestre precedente. Che altro? Ah si, quei sussidi alle assunzioni sono ovviamente sussidi alle imprese, che hanno potuto mettere fieno in cascina, cioè un contributo indiretto alla loro redditività. Ah, a proposito: restiamo sempre in caccia dello sgravio strutturale sul cuneo fiscale, non scordatelo.
I numeri ci dicono che le variazioni nette nei rapporti a tempo indeterminato del primo quadrimestre 2016 sono inferiori di circa un terzo al valore del 2014, cioè avanti Era Renziana. Ma siamo certi che qualche luminare userà i confronti col “pentamestre” dicembre-aprile, per farci cogliere l’essenza del boom. Inoltre, l’incidenza del tempo indeterminato (rapporti attivati e variati) sul totale dei rapporti di lavoro attivati e variati è tornata a calare, ed è oggi inferiore a quella del corrispondente periodo del 2014:
Tra gennaio e aprile 2016 meno nuovi contratti a tempo indeterminato che nel 2014 (quando il Jobs Act non c’era) pic.twitter.com/AaQnAS7QaZ
— Francesco Seghezzi (@francescoseghez) 17 giugno 2016
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Poi, possiamo anche discutere del sesso degli angeli, ma non se ne esce. Il combinato disposto di Jobs Act e decontribuzioni temporanee ha la sua ratio nella riduzione dei costi di licenziamento per le imprese (firing cost), sia a livello individuale che collettivo, perché comunque gli imprenditori avranno meno vincoli nella scelta dei soggetti da mettere fuori azienda in caso di licenziamenti collettivi, e nel sostegno temporaneo alla redditività delle imprese, mediante decontribuzione. Non dovrebbe essere difficile da capire. L’impatto sull’occupazione è largamente neutrale, come chiunque dotato di minimo raziocinio e conoscenza dei meccanismi economici di base si aspetterebbe.
Mai mancano quelli che scoprono un’elevata correlazione tra consumo pro capite di formaggi e morti per soffocamento a mezzo delle proprie lenzuola. Uno dei massimi esperti di questa disciplina, Marco Fortis (chi altri?), intervistato da l’Unità, ci conferma che va pazzo per i piani ben riusciti (al netto della sintassi disassata da sciatteria di trascrizione):
«Secondo me l’effetto congiunto degli 80 euro e della decontribuzione del Jobs Act hanno avuto un effetto tenaglia positivo, tant’è che l’occupazione è aumentata, la disoccupazione diminuita e ci sono più posti stabili. In questo modo si è creata la platea di nuovi consumatori, che prima non c’erano»
Tant’è che l’occupazione è aumentata. Elementare, Watson. La ripresa in Eurozona, e gli irripetibili shock positivi che hanno portato ad essa, nulla c’entrano. Dovrebbe esistere un limitatore delle prese per i fondelli, nel dibattito pubblico italiano.