Il nuovo capo azienda di MPS, Marco Morelli, ha presentato il piano industriale 2016-2019 della banca. I numeri previsti sono eclatanti ma l’intera costruzione si basa su una sostanziale circolarità, che trae spunto dalla rimozione della massa di crediti deteriorati. Nel frattempo, i numeri reali raccontano una difficoltà persistente e promettono monti da scalare. Più o meno quello che è accaduto sinora, dallo scoppio della crisi.
Il piano lo trovate qui. I numeri che contano sono sempre quelli: aumento di capitale di 5 miliardi e smaltimento dei crediti deteriorati, che saranno trasferiti al veicolo di cartolarizzazione a 9,1 miliardi di euro, cioè ad un prezzo di circa il 32% del valore facciale. La tranche junior della cartolarizzazione, quella più rischiosa e a maggior rendimento atteso, sarà assegnata agli azionisti prima dell’aumento di capitale. Il successivo aumento di capitale avverrà senza diritto di opzione, e dovrebbe essere concluso entro fine 2016. E sin qui, tutto identico al piano di luglio, a guida JPM.
Di conseguenza, ad oggi serve il cosiddetto “cornerstone investor“, l’investitore-ancora. In una parola, il nuovo padrone della banca. Di cui non sappiamo nulla. Inoltre, la conversione dei bond subordinati in azioni sarà offerta a tutti gli obbligazionisti, sia quelli istituzionali che quelli retail. Anche di questo, non sappiamo nulla: in che termini avverrà l’offerta di debt-equity swap? Perché un obbligazionista dovrebbe parteciparvi, e non puntare invece alla scadenza del bond e al recupero del capitale? Che accadrebbe in caso di mancata partecipazione allo swap? Boh. Cioè, sappiamo oggi quello che sapevamo a luglio, cioè nulla. Nel frattempo, la realtà ci informa che l'”opportunità” di trasformarsi da creditori subordinati ad azionisti sarà offerta a tutti i detentori di subordinati MPS, come era ovvio dall’inizio tranne che a chi ha propalato la fola che “il retail non sarà coinvolto”. Esiste una cosa chiamata pari passu, ragazzi.
A parte ciò, e per amor di brevità, a noi del piano colpiscono alcune cose. Intanto, il boom della redditività, con il return on tangible equity (ROTE), che passa dallo 0,6% atteso quest’anno all’11% del 2019. A questo risultato contribuirà il crollo del cosiddetto costo del rischio, cioè gli accantonamenti a crediti deteriorati: grazie tante, visto che i crediti deteriorati spariranno. Ecco la prima circolarità. Nel frattempo, il personale di MPS, alleggerito di altre 2.600 unità e 500 sportelli, si lancerà a vendere di tutto e di più ai clienti, visto che il piano (pagine 25-27) indica che c’è “strong upside potential“, come direbbero a Cenate di Sopra: i ricavi da commissioni sono infatti previsti in crescita media annua del 4,4% nell’arco di piano, il che è un numerone. I costi operativi si devono ridurre di 1,5% annuo, a mezzo di spending review (ehilà!), digitalizzazione, snellimenti strutturali vari. Ma dal business plan scopriamo che, sul contenimento dei costi operativi, MPS è già campione italiano di best practices. Dopo il grasso, il tendine e l’osso, attacchiamo direttamente il midollo?
Ma la vera sfida risiede nella slide di pagina 23 della presentazione del business plan. Da essa si vede che negli ultimi anni MPS ha subito una severa emorragia di raccolta diretta da privati, cioè di depositi, il cui stock è passato da 69,8 miliardi del 2012 a 50,5 miliardi al primo semestre 2016. Nel terzo trimestre si sono inoltre verificati importanti deflussi da conti corporate, spaventati dagli esiti dello stress test e turbolenze varie. La banca trae consolazione dal fatto che il numero di conti è rimasto sostanzialmente stabile, durante questi anni. Il sottinteso è che, al tornare della fiducia, la raccolta tornerà a gonfiarsi. Fosse così semplice. Quei soldi, per rientrare, dovranno essere attratti da minori costi e maggiore remuneratività dei prodotti e servizi offerti. In un mercato del banking maturo e stagnante come quello italiano, aumentare la propria quota di mercato costerà, e non poco. Lo “strong upside potential” non è un pasto gratis, e rischia di essere una polpetta avvelenata. O forse questi erano i “low hanging fruit“, e neppure troppo low, come direbbero sempre i nostri manager esperti di PowerPoint?
Tutto ciò premesso, la sintesi è questa: il piano è pressoché identico a quanto si conosceva. Cioè non c’è Corrado Passera, per intenderci. Resta l’incertezza su chi sarà il nuovo proprietario della banca, e su tempi, modi, motivazioni ed incentivi alla conversione dei bond subordinati. Allo stesso modo, il prezzo di cessione delle sofferenze è rimasto intorno al 32%, come si era detto a inizio della vicenda, ancor prima che si svolgesse la complessa due diligence sulla massa dei crediti deteriorati. Sembra un caso di reverse engineering: si fissa il prezzo di cessione delle sofferenze, il resto seguirà. La circolarità di questo piano risiede nel fatto che, pur a fronte di ipotesi di scenario macroeconomico molto conservative, alla banca serve liberarsi delle sofferenze per migliorare la propria redditività, che sarebbe poi ulteriormente spinta da uno snellimento della struttura e da focalizzazione sui clienti. E su questo sarebbe d’accordo anche Monsieur De Lapalisse. Ma forse è proprio lui a scrivere i piani industriali. In collaborazione col grande Maurits Cornelis Escher, magari.