Ieri è uscito il dato di inflazione al consumo del Regno Unito, che a maggio si è portata al 2,9% tendenziale, dal 2,7% di aprile. L’inflazione core, cioè al netto di alimentari ed energia, schizza a sua volta in avanti di due decimi di punto percentuale, a 2,6%. Sono numeri che potrebbero indicare una ripresa vigorosa, se non fosse che la medesima è invece in via di indebolimento, avendo segnato nel primo trimestre +0,2% trimestrale. Il deprezzamento della sterlina, successivo allo shock del referendum sulla Brexit, si sta trasferendo in aumento dei prezzi al consumo attraverso il canale delle importazioni.
Oggi è stato pubblicato il dato di aprile dei guadagni orari medi, che indica la progressione delle retribuzioni nominali. A livello trimestrale annualizzato, siamo a +2,1% inclusi i bonus, e a +1,7% senza bonus. Con una complessa inferenza, visto che l’inflazione supera la crescita degli stipendi, ricaviamo che le retribuzioni nominali britanniche stanno venendo erose dall’inflazione. Già a marzo il tentativo di risalita delle retribuzioni reali, che durava da un paio d’anni dopo quasi un decennio di perdite secche, giunte al 10% cumulato dal 2008 (peggior risultato europeo a pari merito con la Grecia), è stato interrotto da valori di inflazione ai massimi dal 2013. Questo lo segnaliamo a tutti gli scienziati d’Italia secondo i quali “se non si può svalutare la moneta, si svaluta il lavoro”. In un mondo di grandezze esclusivamente nominali, che poi sono quelle che piacciono ai nostri stampatori, sarebbe certamente così. Nel mondo reale, che poi è quello al netto dell’inflazione, le cose sono un filo più complesse.
Un dato certamente positivo, del mercato del lavoro britannico, è quello relativo alla piena occupazione, visto che il tasso di occupazione è al 74,8%, massimo dal 1971, con disoccupazione al 4,6%. Una condizione di pieno impiego del tutto invidiabile sul piano quantitativo ma che suscita dubbi su quello qualitativo, oltre ad essere una sorta di enigma macroeconomico, perché il pieno impiego proprio non riesce a scaldare le retribuzioni. Se a questo dato aggiungiamo che il credito al consumo cresce in doppia cifra annua, soprattutto nella componente degli anticipi su buste paga, i cosiddetti payday loan, si scopre che i britannici sono praticamente tutti occupati ma che si stanno progressivamente impoverendo. È dalla Grande Recessione che gli economisti si interrogano circa questo fenomeno di trattenimento degli occupati (labor hoarding, quindi un vero e proprio “accaparramento”), a costo di far registrare crolli della produttività.
Qualcosa su cui riflettere, anche alla luce di quel casino biblico chiamato Brexit, e dopo un’elezione che ha obliterato le caratteriali velleità di Theresa May. Certo, c’è pieno impiego e di conseguenza la domanda interna per ora regge, ma regge col puntello del debito mentre la componente degli investimenti è a crescente rischio, vista l’incertezza legata ai negoziati di uscita, che rischiano di risolversi in una disfatta pluriennale per i sudditi di Sua Maestà. Se l’inflazione dovesse toccare il 3,1%, la legge prevede che il governatore di Bank of England scriva una lettera al Cancelliere dello Scacchiere, per spiegare quanto accaduto ed ipotizzare interventi. Non un momento facile per Mark Carney, che rischia di dover affrontare nei prossimi mesi un quadro di incipiente stagflazione.
Aggiornamento del 15 giugno – A conferma delle future emicranie da rischio stagflazione, in maggio il Comitato di politica monetaria della Bank of England ha votato per lasciare invariati i tassi ma solo per 5 voti contro 3, massimo dissenso da sei anni a questa parte. Il timore è che la banca centrale sia finita “dietro la curva”, cioè che sia in ritardo nel controllo dell’inflazione, soprattutto avendo stimolato l’economia dopo il referendum sulla Brexit. Trovarsi ad alzare i tassi in un momento di rallentamento congiunturale ed incertezza in costante aumento per il negoziato con la Ue non è il migliore dei mondi possibili, per usare un understatement molto British.